Capitolo [part not set] di 39 del racconto Spy cam

di Claudia Effe

Questo contenuto è riservato a un pubblico adulto. Proseguendo nella lettura dichiari di avere almeno 18 anni.

Alberto tornò accanto a Martina, la quale era ormai da oltre un’ora immobilizzata.

Le dolevano le spalle per la trazione e, ovviamente, le grandi labbra ancorate al suolo.

Per quanto avesse fatto attenzione, infatti, le era stato impossibile evitare anche solo di ondeggiare, e ad ogni movimento aveva sentito le parti molli tendersi tra le gambe.

Ora la sua resistenza era vicina al limite.

“Come ti senti?”, chiese Alberto ironico.

“Male”.

“Ottimo. Era quello che volevo”, commentò.

Fece ancora un passo verso di lei e le toccò il seno senza grazia.

Il movimento la fece ancora ondeggiare e le strappò un lamento.

“Ma non vorrei ti fossi sentita trascurata nell’ultima ora. Sai com’è, avevo due sorelle da seviziare….”.

Rise da solo.

Aprì una cassetto ed estrasse una cosa che a prima vista Martina scambiò per una collana; solo quando Alberto si avvicinò realizzò che si trattava di una ventina di mollette collegate tra loro da un filo di nylon.

“Sai dove verranno attaccate queste mollette?”, domandò Alberto.

Martina non rispose, ma osservò l’uomo aprire la prima molletta della “collana” e avvicinarla al seno della ragazza.

Con l’altra mano le strizzò il capezzolo e fissò la molletta in punta.

Martina emise un lamento, ma non si mosse.

Non le conveniva.

Alberto sogghignò e attaccò la seconda molletta ad un paio di centimetri sotto la prima, sul seno.

Martina questa volta ebbe un moto di dolore e istintivamente cercò di allontanarsi, procurandosi l’ennesimo stiramento alle grandi labbra.

Tornò in posizione con una smorfia.

“Non ti conviene agitarti”, puntualizzò Alberto.

Attaccò una nuova molletta, un po’ più in basso.

Questa volta Martina non si mosse, ma il viso tradiva il dolore che provava.

Alberto fissò ancora un’altra molletta, e poi un’altra, fino ad arrivare a dieci, disegnando una linea che univa il capezzolo destro al corrispondente grande labbro.

Martina aveva gli occhi chiusi e la sua sofferenza era evidente.

Alberto prese in mano l’ennesima molletta e con due dita affondò tra le grandi labbra di Martina, scoprendole il clitoride.

“Questa farà un po’ più male”, disse.

Non aspettò risposta e la applicò al punto sensibile della ragazza, che si morse il labbro per non urlare.

“Dai, che siamo a metà”, le disse come fosse un incoraggiamento.

Prese le mollette successive e le applicò sull’altro lato del corpo di Martina, creando un disegno simmetrico a quanto aveva appena fatto.

La ragazza aveva il corpo adornato da un’enorme V, il cui vertice era il clitoride e le altre due estremità erano i capezzoli.

Due lunghi spaghi sporgevano da sopra, penzolando.

“Fa male?”, chiese Alberto.

Martina annuì con espressione sofferente.

“Pensa che siamo solo all’inizio”, commentò l’uomo.

Guardò verso l’alto e tutti seguirono il suo sguardo.

Attaccata al soffitto, non vista fino a quel momento, c’era una palla delle dimensioni di un pallone da calcio, ma di metallo.

Era sospesa per mezzo di una corda che passava in un anello posto sul soffitto; l’altro capo della cima era legato al pavimento.

Alberto lo svolse e lo manovrò in modo da far scendere la palla fino all’altezza dello sterno di Martina.

“Apri la bocca!”, le disse.

Martina eseguì l’ordine, pur non capendo.

Alberto le mise la corda tra i denti e le disse di morderla.

Martina strinse i denti, facendo si che la corda si tendesse e permettesse alla palla di rimanere davanti a sé.

“Non mollare, eh”, le raccomandò Alberto.

Prese quindi i due estremi dei fili di nylon, quelli a cui erano attaccate le mollette, e li assicurò alla grossa palla.

“Ora penso avrete capito come funziona il tutto – disse Alberto rivolgendosi agli altri e alle telecamere – Finché Martina terrà le mascelle serrate, la palla starà su. Ma nel momento in cui dovesse aprire la bocca, la palla precipiterà al suolo e le staccherà, praticamente all’unisono, tutte le mollette dal corpo. Martina ha la pelle molto chiara, potrebbe farle male”.

Martina lo guardò con sguardo spaventato, serrando ancora di più la mandibola.

“Siccome però non abbiamo il tempo di aspettare che Martina si stanchi, direi di darle una mano. Neil, vieni qui!”.

Il ragazzo di colore si staccò dal gruppo e, seguendo le indicazioni di Alberto, si pose in piedi dietro alla ragazza.

“Ora falle passare le dita sui fianchi”, gli ordinò Alberto.

Il ragazzo fece scorrere i polpastrelli sula pelle candida di Martina.

La ragazza si torse istintivamente, richiamata all’ordine dalle grandi labbra che si tesero immediatamente.

Chiuse gli occhi e strinse i denti, cercando di resistere.

“Un po’ di più, Neil”, lo esortò Alberto.

Le dita del nero accelerarono sul corpo di Martina, che non riusciva più a controllarsi.

Si torceva, ma ad ogni mossa il dolore le andava alla testa.

“Di più!”, disse Alberto.

Il ragazzo le attaccò le ascelle e Martina non riuscì a controllarsi.

Aprì la mascella per ridere e subito sentì la corda scorrere tra i denti.

La vide salire velocemente verso l’alto, mentre la palla compiva il tragitto opposto.

Le prime a tendersi furono le mollette che le stringevano i capezzoli, una frazione di secondo dopo seguirono le altre.

Saltarono tutte, come i bottoni di una giacca troppo stretta.

Martina urlò, mentre il suo corpo le trasmetteva mille punti di dolore.

La palla piombò a terra con uno schianto, e quando si fermò Martina stava ancora ansimando.

Alberto rise soddisfatto, mentre la ragazza legata si chiedeva se sarebbe riuscita ad arrivare al giorno dopo senza cedere.

***

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