Capitolo [part not set] di 13 del racconto Insane Asylum

di Aedon69

CAPITOLO 7 – CORRUZIONE 1

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Ricovero di Montecrucio 01.00 – Stanza n. 7

Le pareti della stanza numero sette, nella sezione detentiva dal ricovero di Montecrucio, erano avvolte nel buio. Il silenzio era interrotto saltuariamente dalle urla lontane degli altri ospiti della struttura.

La ragazza dai capelli neri era seduta al centro della stanza, immobile. I suoi occhi fissavano un punto indefinito nel muro di fronte.

Una bruma verdastra ricopriva, bassa, il freddo pavimento di linoleum. La ragazza chiuse gli occhi, flashback improvvisi iniziarono a popolare la sua mente. Una villa, un uomo anziano, il buio, un esplosione di luce e le grida, i lampeggianti blu.

Il corpo della ragazza viene scosso dai brividi, si accascia sul pavimento, gli occhi si chiudono, altre immagini, altri lampi di memoria la fanno scoppiare in un urlo silenzioso. Vede i resti di una vecchia chiesa, centinaia di figure scure, incappucciate, intonano una nenia cantilenante, ossessiva e lugubre…..

“L…lucia”

….. quattro donne giacciono incatenate su altrettanti lastroni di marmo bianco, tuniche bianche coprono la loro nudità…. .

“I….Io….. sono……”

…..Corpi nudi si avvinghiano sulle quattro donne, un altro flashback, una donna che la guarda in modo amorevole, il buio, di nuovo gli uomini incappucciati che le possiedono selvaggiamente, a turno….

“Io sono Lucia….. Io sono la S….Somma…..”

Ora la ragazza si contorce, sdraiata sul pavimento, le sue mani si stringono sulle cosce, salgono verso il ventre…. Le sensazioni di quello che sta vedendo le può sentire dentro di sè, le scuotono le membra… la fica è fradicia, infila dentro di sè le sue dita sporche…..

“ io sono la Somma Tentatrice!”

“ io sono la serva di Lilith!”

“io sono QUI!”

Le mura sono scosse da un tremito, un boato scuote l’intero edificio, il cielo notturno, poco prima sereno, è ora coperto da scure nubi cariche di pioggia ed elettricità, i lampi illuminano a giorno il monastero ed i suoi edifici.

Al centro della stanza Lucia si erge in piedi, le braccia distese lungo i fianchi, gli occhi chiusi a due fessure cariche di odio brillano nell’oscurità, un ghigno malvagio increspa le sue labbra rosse.

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Monastero di Montecrucio – due giorni dopo – Ostello – ore 9.00

Erano due giorni che Mara era tornata da Roma, non le piaceva recarsi in vaticano, di solito la stanza che le assegnavano odorava di vecchio e muffa. La città era troppo caotica per lei, piena di gente maleducata e frenetica.

Stava rassettando la stanza dei due neosposi che erano stati ospiti dell’ostello nei giorni precedenti. Mancavano ormai pochi mesi alle nozze d’argento. L’idea non l’allettava molto, l’amore tra lei e suo marito, Giulio, era scemato da tempo, sostituito da un silenzioso distacco.

Gli anni erano passati, erano arrivati i figli ed erano cresciuti, alla fine Mara si era ritrovata, ad una certa età, sola. Aveva iniziato una dieta, si era dedicata a se stessa, aveva intensificato le visite dal parrucchiere o dall’estetista, aveva perso circa quindici chilogrammi e le sue forme erano magicamente tornate a fare il loro dovere. Ora quando si vedeva a fianco del marito, sciatto, trasandato, sporco, si rendeva conto di quanto fosse aumentato il divario tra loro due.

Il loro matrimonio era una farsa, costretti a rimanere insieme per mantenere quel lavoro che li faceva sopravvivere dignitosamente e che, a fronte di un divorzio, avrebbero perduto, il monastero non avrebbe mai potuto continuare ad avvalersi dei loro servigi se avessero divorziato. Mara e Giulio lo sapevano, ecco perché continuavano a vivere le loro vite come estranei sotto lo stesso tetto.

***
Foresteria ore 9.15

Marco era al telefono, lui e suo padre avevano bisogno di droga. Padre Ignacio, l’abate del monastero, li riforniva regolarmente ed era lui che ora stava sbraitando dall’altra parte della cornetta. Negli ultimi tempi l’abate era sempre più restio a concedere credito ai due personaggi, il loro ritardo nei pagamenti lo irritava, lo irritava il fatto che li dovesse incrociare costantemente, odiava quei due individui così squallidi, così ai margini.

“Quante CAZZO di volte ti devo ripetere che non mi devi chiamare a questo numero piccolo testa di merda….”

“Scusi Padre Ignacio, lo so che non dovrei farlo, ma abbiamo bisogno…” rispose mellifluo il ragazzo.

L’abate era lì per scoppiare, quello che non si spiegava era come fosse stato possibile che quella gran fica di donna che era Mara avesse potuto accoppiarsi con un decerebrato come Giulio. E quello che ancora di più lo faceva infuriare era come avesse potuto mettere al mondo un altrettanto decerebrato essere, di sesso maschile, come quello che lo stava importunando al telefono.

“Scusi, mi scusi, chiedo scusa……mi ci pulisco il mio santissimo culo con le tue scuse….. Tu e quel deficiente di tuo padre siete sotto di settemila quattrocento euro, se non vedo i soldi non vi do niente… capito? Nienteeeee….”

Marco era disperato, aveva bisogno di coca, ora si era aggiunta anche la sorellina ad utilizzare la polverina bianca e la durata delle dosi si era notevolmente ridotta.

“La prego Padre Ignacio, siamo disposti a qualsiasi cosa per…..”

“Qualsiasi cosa?” lo interruppe l’abate.

“Qualsiasi…” disse titubante il ragazzo.

“Bene, ascolta bene quello che voglio….”

“Si signore, mi dica….”

L’abate disse qualcosa che fece strabuzzare gli occhi al ragazzo.

“ma…non so se ci riesco!” disse Marco con un filo di voce.

“Tu fallo ed io ti faccio stare senza problemi per un mese…. Vecchi debiti compresi…” disse Padre Ignacio.

“Vecchi debiti… mio dio…. Si…. Certo…. Ci proverò…” disse Marco riagganciando.

***
Ostello di Montecrucio – ore 10.00

Mara aveva concluso il giro della mattinata, scese le scale che dal primo piano portavano alla reception dove una suora, sofferente, cercava a fatica di sbrigare le pratiche di chek-in per una scolaresca proveniente da Roma.

Una donna bionda, giunonica, con i capelli raccolti a coda di cavallo, cercava di calmare una decina di studentesse che schiamazzavano nella hall.

“Ragazze…..zitte per favore….. fate lavorare la sorella…..”

“Professoressa, la sorella di chi?” esclamò canzonatoria una ragazzetta, con i capelli rossi e l’aria di essere una furbetta impenitente, scatenando le risate sguaiate delle sue compagne.

“Agata smettila di fare la spiritosa, guarda che ti lascio in stanza per tutta la durata della gita!” rispose stanca la professoressa con un accento che tradiva le sue origine tedesche.

Mara passò accanto alla donna, mentre si dirigeva verso l’uscita, ne ammirò l’abbigliamento curato, gli occhi azzurri incorniciati da un paio di occhiali da vista Dìor, la gonna nera attillata che fasciava i fianchi pronunciati, la camicetta bianca che tratteneva a malapena il seno rigoglioso.

Un ometto basso, pelato, con un vestito a quadri, anacronistico, si avvicinò al donnone con reverenza.

“Ehm Helga, se mi dici il numero della mia stanza io salgo a posare le valigie….”

“Tiziano, ti prego, invece di aiutarmi con queste belve te ne vuoi andare?” rispose sconsolata la professoressa, “Ti prego falle calmare, provaci almeno!”.

Tiziano era il professore di chimica nell’istituto romano da cui veniva la scolaresca. Dal modo in cui aveva parlato con la donna alta e dalle reazioni divertite delle ragazze non doveva avere molto ascendente né sulle sue alunne né tantomeno sulla professoressa.

Mara uscì, la giornata era splendida, si diresse verso la foresteria, doveva preparare il pranzo per la famiglia.

***
Ricovero di Montecrucio – ore 10.00

Il dottor Sibelli, suor Brigida ed Astor Almond erano in piedi davanti al monitor del computer che ritornava dei segnali disturbati.

“Quindi tutte le riprese delle telecamere a circuito chiuso hanno smesso di funzionare dall’una alle due di stanotte?” chiese Almond.

“Esatto, i guardiani notturni hanno udito un grosso boato all’incirca verso le una e trenta, sono entrati nell’ala di detenzione femminile ed hanno trovato tutte le pazienti sveglie, alcune erano impazzite. La paziente della stanza numero undici ha sbattuto talmente forte la testa contro la porta che adesso è ricoverata in rianimazione…” Rispose il dottore.

“E…la paziente speciale?” Chiese Suor Brigida.

“Immobile, ferma, muta….”

“Posso parlarci?” chiese Almond.

“Domani…” rispose il dottore, “… oggi ci sono le visite di controllo, preferisco che veniate domani mattina verso le nove, i pazienti sono più calmi a quell’ora.”

“Va bene…” rispose Almond fissando il monitor, poi rivolto verso la badessa disse: ”io mi reco in biblioteca, col vostro permesso.”

Si girò ed uscì dalla sala di controllo del ricovero.

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Foresteria – ore 10.30

La casa era ordinata, Carlotta aveva sistemato prima di andare a lavorare nell’ufficio della badessa. Mara mise l’acqua a bollire sul fornello della cucina. La cucina era stata costruita in muratura da suo figlio Marco. Il lavoro che svolgeva, sin da piccolo, insieme ai monaci nelle fabbricerie del monastero gli aveva insegnato l’arte del costruire, era bravissimo e Mara non perdeva occasione per elogiarlo. A volte il ragazzo era troppo cupo o circospetto, introverso, ma Mara adorava quel figlio alto, dinoccolato, col suo ciuffo ribelle che gli copriva gli occhi.

La donna, mentre tagliava le verdure, non si accorse che Marco la osservava fermo sulla porta della cucina. Il ragazzo ammirava la madre. Mara indossava una vestaglia bianca, Marco poteva osservare le sue forma attraverso il tessuto trasparente, i suoi fianchi larghi ed il suo vitino stretto, il suo sedere abbondante e tondo, le mutandine di cotone nero non riuscivano a coprire l’opulenza delle sue natiche sode.

Marco si era eccitato, scese con lo sguardo verso i piedi della donna intenta a cucinare, era scalza, le sue unghie tinte di un rosso acceso, le sue caviglie erano eleganti. Marco ebbe un erezione.

“Piccolo, ciao! come mai non sei in laboratorio?” chiese Mara cogliendo di sorpresa il ragazzo.

“Ciao Mà, buongiorno, oggi c’era poco lavoro, abbiamo finito ieri di intagliare i portachiavi e le statuine, sono in fase di spedizione, sono libero, che cucini di buono?”

“Spezzatino….” Rispose la donna baciandolo sulla guancia.

I pantaloni di Marco erano ancora tesi dall’erezione, Mara se ne era accorta, sapeva che Marco la spiava. Quando era all’ostello, intenta a rassettare le camere, coglieva la sua ombra nascosta, quando era in bagno sotto la doccia scorgeva la figura del figlio che si toccava in mezzo alle gambe spiandola. Non era allarmata da quell’atteggiamento, sapeva che il figlio stava crescendo, che era normale per lui avere quelle pulsioni.

Marco si avvicinò alla madre, con la scusa di prendere la bottiglia dell’acqua strusciò la sua erezione contro il sedere di Mara.

La donna non si mosse, suo figlio non era mai arrivato a tanto, poteva capire il tentativo di carpire immagini fugaci della sua nudità ma il contatto fisico non l’aveva previsto. Rimase interdetta.

“Tu hai finito all’ostello?” disse vago Marco, versandosi dell’acqua dalla bottiglia.

“Si giornata tranquilla.”

Marco finì di bere, posando la bottiglia aderì alle natiche della madre con più insistenza, sentì la sua erezione adagiarsi nel solco morbido delle sue natiche, il cazzo teso nei suoi pantaloni ebbe un guizzo, spinse leggermente col bacino.

Mara, sorpresa, lasciò il coltello reggendosi con entrambe le mani al bordo del piano di lavoro, poteva sentire l’uccello del figlio spingere da dietro tra le sue natiche, girò leggermente il viso verso il figlio.

Marco vide la madre voltarsi verso di lui, vide l’espressione interrogativa animare i suoi occhi verdi, un leggero rossore le comparve sulle guance, le mani del ragazzo si posarono morbide sui fianchi della donna.

Mara sentì le mani del figlio scenderle lungo i fianchi, stringere la sua carne. Il ventre del figlio spingeva insistente contro il suo culo, chiuse per un attimo gli occhi, vinta dalla sensazione che quel contatto le stava provocando. Troppo tempo era passato da quando delle mani maschili l’avevano toccata con tanto ardore.

Marco stava ansimando, eccitato, spaventato, il cazzo gli stava scoppiando, iniziò a muoversi stringendo i fianchi della madre, salì verso il seno, lo afferrò con entrambe le mani, le sue dita strinsero, dolcemente, i capezzoli.

Mara stava ansimando, le mani del figlio le stavano stringendo il seno. Sentì le sue mutandine bagnarsi. Teneva gli occhi chiusi, impietrita dalle sensazioni e dalla vergogna. Era eccitata, incapace di reagire. La sua mente stava elaborando un piano di fuga mentre il suo corpo la teneva inchiodata in quella posizione, a sottostare ad ogni spinta di bacino del figlio, ad assaporare il brivido caldo che quel contatto le stava donando.

Marco pose le sue mani sul ventre di Mara, le alzò la vestaglia, si insinuò tra le sue cosce, sentì il tessuto umido delle sue mutandine, incoraggiato dall’eccitazione della madre scostò il tessuto elastico, i suoi polpastrelli accarezzarono la pelle delicate delle sue grandi labbra.

Mara sentì le dita del figlio sfiorarle le labbra della fica, il liquido caldo della sua eccitazione le colava copioso tra le cosce. Istintivamente divaricò le gambe. Le dita di Marco entrarono dentro di lei, scivolarono morbide tra le labbra umide della sua fica.

Marco sentì la mano della madre tirargli giù la zip dei pantaloni, le dita della donna si strinsero intorno alla carne turgida e calda del suo cazzo.

Mara iniziò a muovere i suoi fianchi assecondando il movimento delle dita del figlio che la stava masturbando. Il cazzo di Marco pulsava nella sua mano, la sua cappella era lucida e tesa, lo voleva, la sua fica pulsava avida di sensazioni .

Un chiacchierio sommesso fuori dalla porta di ingresso li fece smettere immediatamente, qualcuno stava rientrando in casa, forse Giulio. Marco si ricompose scappando verso la sua camera per nascondere l’evidente erezione. Mara si sistemò la vestaglia e continuò a cucinare.

Durante il pranzo nessuno disse una parola, l’aria era tesa. Il padre di Marco non si accorse delle occhiate fugaci che il ragazzo lanciava verso la madre.

Mara era eccitata, per tutto il pranzo non aveva fatto altro che pensare a quel cazzo che aveva tenuto tra le mani pochi minuti prima, voleva sentire ancora le mani del ragazzo su di se, voleva sentirsi desiderata, nulla importava se si trattava di suo figlio, la vita non le aveva riservato grosse soddisfazioni, i suoi sogni erano stati ridimensionati, impacchettati e consegnati senza che lei potesse fare nulla.

Dopo il pranzo, non appena Giulio si chiuse in camera da letto per il consueto pisolino pomeridiano Mara entrò nella camera di Marco. Il ragazzo era sdraiato a letto con indosso le cuffie, muoveva i piedi a ritmo di musica.

“Ciao mamma, sei arrabbiata?” chiese timoroso.

“No piccolo mio….” Sussurrò Mara. Si era seduta a bordo del letto, la sua mano risaliva lenta verso l’inguine del figlio, raggiunse la patta, già tesa, dei pantaloni, sganciò il bottone dei jeans, tirò giù la zip.

Marco guardava il viso di sua madre, i suoi capelli neri e ricci, i suoi occhi verdi lo fissavano, i primi due bottoni della vestaglia erano sganciati, la pelle morbida ed invitante del seno attirava magnetico le attenzioni del ragazzo.

Ora Mara stringeva il cazzo del figlio nella mano, scendeva lentamente, risaliva toccando con i polpastrelli la sua cappella dura, lucida ed invitante.

“Mamma…. Ma c’è papà nell’altra stanza… come facciamo?”

“Lo so…. Ma è così difficile smettere…. “

“Ho un idea…..” disse Marco.

Mara si interruppe, il cazzo del figlio pulsava caldo nel palmo della sua mano.

Marco proseguì: ” il laboratorio di falegnameria nel pomeriggio è chiuso, io ho le chiavi. Nel retro c’è un piccolo stanzino adibito ad ufficio, con una scrivania ed un divano, potremmo vederci lì fra un ora, che ne dici mamma?”

“E se ci scoprono?” rispose lei senza lasciar scivolare dalle sue mani palo di carne turgida e vibrante.

“Non ci scopriranno!” rispose sicuro di sé Marco. Prese la mano della madre con la sua, accelerò il movimento con cui Mara lo stava carezzando, chiuse gli occhi, pregustando quello che sarebbe successo da lì ad un ora più tardi.

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Ostello di Montecrucio – ore 14.00

La scolaresca era stata sistemata nelle stanze dell’ostello. Le studentesse nelle stanze da tre posti, i docenti erano stati sistemati nelle stanze singole, più grandi e confortevoli.

Nei corridoi regnava il caos, le ragazze giravano da una camera all’altra, la suora alla reception, suor Benedetta, sbuffava vistosamente alzando gli occhi al cielo con infinita pazienza. La professoressa Helga dormiva un sonno profondo, stremata dal viaggio e dalle sue alunne, Tiziano Meier, il professore di chimica, era scomparso dopo aver raggiunto la sua camera.

Una ragazza mora, si presentò al bancone della reception: ”Scusi Suora, si può fare un giro nel monastero?”

“Si figliola…” esclamò Suor Benedetta immaginando la pace che avrebbe regnato nell’ostello, “… l’importante è che rimaniate nell’area del chiostro, nel boschetto fuori le mura potete fare come volete, siete libere.”

“Che è er Chiostro?” rispose in romano la ragazza.

“Santo cielo, lo spazio con le colonne intorno ed il pozzo al centro…” rispose leggermente acida e scocciata la Suora.

La ragazza si girò, facendo svolazzare il gonnellino a quadri scoprendo le sue gambe giovani ed atletiche.

“Ragazzeeee si può fare un giro, chi viene?” urlò salendo i gradini a due a due.

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Chiostro del Monastero – ore 14.15

Dopo quindici minuti il gruppetto di ragazze girovagava senza meta precisa nel chiostro del monastero, il silenzio del primo pomeriggio era irreale, le alunne, residenti in una grande città, non erano abituate a quell’assenza di suoni, le loro voci echeggiavano cristalline nel chiostro.

Eva, la ragazza mora della reception, saltellava sulle mattonelle che lastricavano il corridoio, Agata la ragazza con i capelli rossi sedeva sul seggio del priore, posto sul corridoio a nord, masticando sguaiatamente un chewing gum.

Dal portone in legno massiccio che portava alla chiesa del monastero uscì un monaco, si fermò sul gradino guardando curioso le ragazze. Era Padre Giovanni, un uomo altissimo, calvo, con un espressione perennemente corrucciata dipinta sul volto. I suoi occhi erano arrossati. La sua mano sinistra tremava vistosamente.

Il monaco continuava ad osservare le alunne che bighellonavano nello spazio del chiostro, quando i suoi occhi si fermarono su Agata un sorriso appena accennato increspò le sue labbra. Si diresse verso di lei, il tremolio della mano smise immediatamente.

“Buongiorno….” Disse il monaco con una voce profonda e senza inflessione.

“Buongiorno….” Rispose Agata coprendosi gli occhi con la mano a causa del sole.

“Cosa fate qui? Non sapete che questo è un luogo di silenzio?”

Agata si limitò ad alzare le spalle, l’idea della gita le era sembrata divertente quando aveva cercato di convincere i suoi genitori a sborsare i centocinquanta euro della quota, ora invece stava realizzando che una gita di tre giorni in un monastero non era il massimo del divertimento.

“Cosa c’è, ti hanno morso la lingua?” disse duro il monaco.

La mano sinistra dell’uomo riprese a tremare, le sue labbra iniziarono ad intonare una nenia in una lingua sconosciuta. Come se fosse risucchiata in un vuoto pneumatico Agata iniziò a perdere i contorni visivi del chiostro e delle sue compagne, era come se fosse in un tunnel indefinito ed etereo dove c’erano soltanto lei ed il monaco.

“Seguimi…” ordinò il monaco.

Agata si alzò dal seggio, indossava una corta gonna di tweed e camicetta bianca, l’uniforme dell’istituto. Seguì il monaco all’interno della chiesa. Le compagne della ragazza non si accorsero della sua scomparsa, era come se camminasse nascosta da una nebbia immateriale. Attraverso una tenda, posta a lato dell’abside, entrarono in una stanza spoglia illuminata solamente dai candelieri appesi alle pareti umide.

Il monaco tirò verso il basso una pietra sporgente facendo scattare l’apertura di un ingresso nascosto sul pavimento della stanza. Agata, ipnotizzata, seguì l’uomo scendendo gli scalini in pietra dello stretto passaggio.

Arrivarono in una stanza scarsamente illuminata, il monaco accese le candele, i muri dell’enorme stanza erano ricoperti di teschi ed ossa, le fiammelle delle candele creavano effetti di luce ed ombra sui quei resti macabri facendoli sembrare vivi.

Al centro della stanza vi era un altare sacrificale coperto da una tovaglia nera ornata di disegni dorati, ai lati erano posti due candelabri, ciascuno con sette candele. Il monaco accese le candele, fece sistemare Agata sull’altare, sdraiata. Come un automa la ragazza obbedì, apparentemente ignara del luogo dove si trovava.

Alle spalle del Monaco apparve la figura minuta di una suora con il volto coperto da un cappuccio scuro, osservò la ragazza per alcuni minuti senza proferire parola. Padre Giovanni attendeva in silenzio come se da lei dipendesse la sua vita, traspariva dal suo volto un timore reverenziale ed una paura malcelata.

“E’ perfetta…”

Padre Giovanni tirò un sospiro di sollievo.

La suora si scoprì il capo, era Suor Kim, si avvicinò alla ragazza, percorse con le dita la pelle bianca delle sue gambe fermandosi all’orlo della gonna.

Il torpore che aveva avvolto Agata stava scemando, riprendeva il controllo del suo corpo. Suor Kim fece un cenno muto al monaco che armeggiò ai piedi dell’altare estraendo da un baule, nascosto dalla tovaglia nera, delle cinghie di cuoio. L’uomo legò mani e piedi di Agata all’altare.

“Bene….” Disse Suor Kim carezzando il volto truce del monaco. Scese con la mano verso il suo inguine, il saio del monaco lasciava trasparire l’erezione. Suor Kim attraverso il saio afferrò il cazzo duro del monaco iniziando a masturbarlo, le loro lingue si incrociarono in un bacio blasfemo ed umido.

“C.. cosa succede… dove sono?” disse la ragazza legata all’altare ormai cosciente.

Suor Kim avvicinò il suo volto a quello di Agata, pose le sue labbra su quelle della ragazza che, sorpresa, strabuzzò gli occhi. Una lieve bruma verdastra uscì dalla bocca della suora insinuandosi sinuosa in quella della ragazza. Le fiamme delle candele si animarono, le orbite vuote dei teschi sembravano osservare come muti testimoni il rituale che stava avendo luogo nella stanza.

Agata tossì, sembrava soffocare, il monaco si mosse verso di lei ma venne bruscamente fermato da suor Kim. Un respiro a pieni polmoni, la ragazza sembrava stare bene, guardò Suor Kim negli occhi, sorrise.

***
Fabbriceria di Montecrucio – ore 15.00

Marco, attento a non farsi vedere da nessuno, aprì la porta della fabbriceria del Monastero. L’ambiente era enorme, c’erano torni, banchi di lavoro ricoperti di strumenti adatti a lavorare legno e metallo, tutto era ben conservato e pulito, i monaci erano ordinati ed attenti alla sicurezza.

Padre Ignacio era in piedi, poggiato al bordo di uno dei banchi di lavoro.

“Allora?” disse senza alzare gli occhi dalla rivista che stava sfogliando.

“Sta arrivando, si deve nascondere, almeno per adesso…” rispose Marco.

“Si, dietro la finestrella del piccolo ufficio c’è un anfratto da dove si può osservare tutto senza farsi vedere, mi nasconderò li dietro in attesa, attendo un tuo cenno…”

L’abate si diresse verso il punto di osservazione. Marco attese qualche minuto. La porta si aprì e Mara entrò furtiva nel laboratorio. Indossava una camicetta aperta sopra una canottiera nera che le fasciava il seno prosperoso, una gonna bianca di cotone leggero e dei sandali bassi.

“Ti ha visto qualcuno?” chiese preoccupata Mara al figlio.

“No, sono stato attento. Vieni…” le disse indicando il piccolo ufficio, “… di là c’è un piccolo frigo bar con del centerbe fatto dai monaci.”

I due si diressero verso lo stanzino, c’era una scrivania, un divanetto a due posti ed un piccolo armadio al cui interno era sistemato il frigo bar.

Marco versò il liquido verde in due bicchieri, lo porse alla madre che trangugiò il liquore in un sol sorso, si sentiva tesa ed aveva bisogno di rilassarsi.

Mara si sentì subito meglio, il liquido le scese caldo nella gola, poggiò la schiena, divaricando leggermente le gambe. Marco le poggiò una mano sulla coscia, iniziò a salire verso l’inguine, scostando la gonna.

Mara si versò altro liquore, bevve avida, si levò la camicetta restando in canottiera. La dita di suo figlio si intrufolarono nelle mutandine, un gemito le sfuggì quando le sue dita le sfiorarono la fica già calda e bagnata. Si baciarono. Mara portò la sua mano dietro la nuca del figlio, la vergogna per quel gesto così intimo ed incestuoso era sopraffatta dalla sua eccitazione. Sentire le dita del ragazzo dentro di lei le facevano sciogliere il ventre in un calore umido. Era da tempo che non provava quelle sensazioni, si sentiva sporca ed allo stesso tempo elettrizzata.

Marco masturbava la madre, estasiato del contatto con quel corpo generoso, sentire gli umori della donna sulle sue dita lo incoraggiava ad essere più audace, il sapere che l’abate li stava spiando non lo stava infastidendo, lo stava eccitando. Sfilò le mutandine della madre, le alzò la canottiera scoprendo i seni rigogliosi che lo avevano allattato. Come un ritorno alle origini li prese in bocca, iniziò a succhiarli, li mordicchiava, li tirava con i denti.

Mara stava gemendo, il dolore dei suoi capezzoli torturati dalla bocca del figlio, si mischiava al piacere, allargò le gambe, si portò la mano di Marco tra le cosce, la sua fica accolse le dita del ragazzo, si sentiva piena, le sentiva muoversi dentro di lei, godeva come non ricordava di aver mai fatto, in quel momento avrebbe concesso tutto.

Marco si sfilò i pantaloni, tirò via gli slip, si sedette sul divano invitando la mano a sedersi su di lui, sentì il cazzo che scivolava tra le gambe della madre, la afferrò per i fianchi imprimendole il ritmo.

Mara stava godendo, si sentiva troia, esaltata da quel cazzo giovane e duro che le scivolava nella fica facendola sbrodare come non mai. Porse i suoi seni, premendoli con le mani, alla bocca del figlio che iniziò a succhiarli, le sue mani stringevano forte i fianchi generosi della madre.

L’abate si stava masturbando spiando la scena, aveva sempre intuito la natura da puttana di Mara, molte volte, nel corso degli anni, si era ritrovata a fissarla mentre camminava per il portico del chiostro o mentre era impegnata nelle faccende dell’ostello, era attratto da quella donna, dalla sua bocca carnosa e rossa, dai suoi capelli ricci, da quel culo tondo ed abbondante. Certo, a volte si conciava come se fosse l’ultima delle sguattere ma era sicuro che una volta che la donna si fosse sciolta non ci sarebbero stati freni a quello che si poteva ottenere da lei.

“Lo senti come ti scopo mamma, ti piace il mio cazzo nella fica?”

Marco aveva fatto inginocchiare la madre sul divano, la stava prendendo da dietro. Le sputò sul buco del culo, lo umettò con cura, vi infilò il pollice mentre la scopava come una cagna.

“Si, oddio quanto mi fai godere, infilami le dita nel culo, dai, trattami come una vacca….”

Mara era in estasi, poggiata allo schienale del divano gemeva ad ogni affondo del figlio dentro di lei, le dita del ragazzo le slabbravano il culo, la saliva con cui l’aveva lubrificata le colava caldo ed odoroso. Non le bastava, voleva di più, volevo solo godere.

Come se le avesse letto nel pensiero Marco la incitò: “Non ti basta un solo cazzo vero mamma? ne vuoi altri? vuoi essere riempita in tutti i tuoi buchi da puttana?”

“Si amore mio, trattami da cagna, vorrei un altro cazzo nel mio culo, nella bocca, dappertutto, voglio essere sfondata. Dai. Daaai!”

Marco si sfilò la maglietta, l’arrotolò, bendò la madre mentre la scopava. Fece un cenno all’abate, era il momento. Il monaco uscì dal suo nascondiglio, il cazzo già duro e lucido.

Padre Ignacio si mise, attento a non farsi sentire, dietro il divano, poggiò la sua cappella turgido sulle labbra dischiuse di Mara.

“Ma chi?” esclamò la donna sorpresa.

“Shhhh…” fece Marco, “….è il tuo desiderio che si realizza…. Prendilo in bocca, fammi vedere come succhia la mia mamma troia!”

Mara allargò le labbra, sopraffatta del godimento. Il palo di carne dell’abate le scivolò in gola, il suo sapore acre non fece altro che farla eccitare di più, lo sentiva guizzare eccitato nella sua bocca, spinse la testa fino a farselo arrivare in gola, voleva essere scopata ovunque, fino in fondo.

Marco aveva infilato tre delle sue dita nel culo della madre, mentre la scopava guardava eccitato il buco elastico allargarsi ad ogni affondo della sua mano, le sue dita uscivano dall’orifizio di Mara bagnate di umori odorosi e caldi.

L’abate levò la benda improvvisata dagli occhi della donna, lei alzò lo sguardo verso l’uomo che la stava scopando in bocca, nel vederla, con gli occhi strabuzzati dalla sorpresa, il monaco si infoiò ancora di più spingendole la testa verso di se e soffocandola con il suo cazzo nodoso.

Marco ormai era ipnotizzato dall’orifizio slargato della madre, le aveva infilato nel culo quattro dita che scivolavano nel suo sfintere come se fosse burro. Continuava a scoparla con foga affondando con forti colpi d bacino.

Mara era impazzita, mai si era sentita così puttana, mai aveva concesso così tanto a degli uomini, mai con due uomini, godeva, ansimava, li incitava.
“Dai così tesoro, sfondami il culo, continua….”

L’abate sfilò il cazzo dalla bocca di Mara, andò vicino a Marco, salì sul divano in piedi ed infilò il cazzo nel culo della donna, sprofondando dentro di lei.

“Ahhhhh mi sfondiiii, siiiii…..” urlò la madre di Marco, “…..siiii mi piace, due cazzi per me, continuate così brutti porci, scopatemi come una vacca in calore…..”

Eccitati dalle urla di Mara i due aumentarono la forza con cui stavano letteralmente sfondando la donna, le cosce erano fradice dei suoi umori, le colavano dal culo, dalla fica. Entrambi i suoi orifizi dilatati da quei pali di carne vigorosi, nodosi, duri.

Al culmine del godimento Mara iniziò a gridare così forte che padre Ignacio dovette tapparle la bocca con la mano, i sussulti degli orgasmi le facevano muovere il bacino convulsamente, mugolava come una cagna.
I due stavano per sborrare, la fecero mettere in ginocchio, entrambi si posero ai suoi lati schizzandole in viso il loro liquido caldo e vischioso.

Mara leccò la sborra che le colava ovunque, ingoiò ingorda il loro seme ansimando e continuando ad essere preda degli spasmi dell’orgasmo.

Si accasciarono sul divano, le mani di Mara saldamente ancorate sui loro cazzi umidi.

“E brava puttana, sei una donna dalle mille sorprese….” Esclamò il monaco.

“Mhhh… mai goduto così tanto…” disse la donna.

“Mai dire mai….” Esclamò l’abate sorridendo.

***

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