Capitolo [part not set] di 13 del racconto Insane Asylum

di Aedon69

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CAPITOLO 2 – LA NEBBIA MEFITICA

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***

Ostello di Monte Crucio

Mara stava rassettando una delle stanze nell’ostello. Nel 2008 una parte del monastero era stata adibita ad ospitare turisti e visitatori in cerca di un contatto con la natura ed il silenzio.

Una delle stalle del complesso era stata ristrutturata, vi avevano creato delle stanze confortevoli ed una reception efficiente che si occupava di gestire il flusso di visitatori, per lo più tedeschi e polacchi. L’edificio distava poche centinaia di metri dalla foresteria, dalla parte opposta al vialone principale.

Sbuffava Mara, sua figlia Carlotta doveva essere lì con lei a darle un aiuto ma non si era fatta viva, aveva anche provato a contattarla al cellulare ma non vi era stata risposta.

Marco si affacciò nella stanza dove sua madre stava lavorando, rimase nascosto.

La osservava china sul letto, il grembiule corto che indossava le scopriva le cosce piene ma armoniose, il suo culo generoso e tondo era irresistibile. Marco ebbe un’erezione, si toccò l’uccello, si sarebbe masturbato dinanzi a quello spettacolo.

Suor Kim, uscendo dal ripostiglio sul corridoio, ebbe un sussulto quando vide il ragazzo fermo sulla soglia della stanza 313 mentre si accarezzava tra le gambe, le sue guance avvamparono, scappò giù per le scale cercando di non far rumore, Marco la seguì con lo sguardo.

La suora tornò alla reception, chiamò la sorella che doveva darle il cambio dopo la notte di turno, e tornò nella sua stanza. Il dormitorio delle suore era nell’ala est del complesso centrale, vi si accedeva dal chiostro centrale.

***

Dormitorio ala Est – Suor Kim

Il monastero contava circa una quarantina di suore, comprese le novizie. Alloggiavano tutte nell’ala est, al primo piano. Dalla parte opposta, nell’ala ovest, c’erano i dormitori dei monaci, i due luoghi erano separati dagli uffici dirigenziali del monastero, accanto ai rispettivi uffici c’erano le stanze da letto della badessa e dell’abate, padre Ignacio.

Le piccole stanze, nel dormitorio delle suore, erano disposte su entrambi i lati di un lungo corridoio. All’interno c’era un lettino singolo, un armadio ed una scrivania. Il bagno era in comune ed era posto alla fine del corridoio.

Suor Kim non riusciva a placare il suo turbamento, l’immagine del ragazzo, sorpreso con le mani tra le gambe, la faceva sentire sporca. Cercò di calmarsi, si diresse verso il bagno, entrò nella zona docce e si spogliò, era deserto, le altre sorelle erano tutte occupate nei loro servizi quotidiani.

La ragazza era originaria delle filippine: bassa e magra, con capelli cortissimi e labbra piccole e carnose. Era graziosa, aveva ventidue anni. Nel suo paese entrare a far parte del dell’ordine era considerato un grande onore ed una fortuna.

Il getto d’acqua calda non fugò i pensieri sconci che la vista del ragazzo le aveva procurato, si asciugò indugiando sui suoi seni appena accennati, scese verso il basso, si passò il telo sul sedere stretto e piccolino, con le dita accarezzò il suo buchino stretto e scuro, rabbrividì. Non riusciva a calmarsi, non si spiegava tanto turbamento, decise di scendere in chiesa a pregare, in quel luogo ogni pensiero impuro l’avrebbe abbandonata.

La chiesa era deserta, andò verso l’altare, vi si inginocchiò dinnanzi ed iniziò a pregare.

Dall’altra parte dell’altare una luminescenza verdastra iniziò ad uscire dalla crepa che padre Alphonse aveva mostrato alla Badessa. Il sigillo chiudeva l’ingresso al reliquiario, erano almeno duecento anni che non veniva rimosso. Una nebbia densa e maleodorante si diffuse nell’aria, Suor Kim sentì l’odore forte e nauseabondo, si alzò cercando la fonte della bruma che stava coprendo interamente il pavimento della chiesa.

La nebbia proveniva dal sigillo in pietra, si chinò su di esso, uno sbuffo di vapore la colpì al viso spaventandola e facendola cadere a terra.

Si toccò le guance, erano umide, si avvicinò di nuovo alla sorgente di quella strana foschia, le sembrava di udire delle voci provenire dal sigillo. Era impossibile, il reliquiario non era mai stato aperto da quando era arrivata. Poggiò l’orecchio sulla pietra fredda: nessun rumore, nessuna voce… la bruma iniziò a ritirarsi, risucchiata dalla crepa, poi una voce, distinta, chiara, femminile: “KIIIIIIIIIMM”

La giovane suora si alzò di scatto, spaventata, corse verso l’uscita laterale ed imboccò le scale che portavano ai dormitori.

Si mise a letto. Tremava, gocce di sudore freddo le imperlavano la fronte, la stanza sembrava girarle intorno. Improvvisamente le candele, poste su di una mensola sopra il letto, si accesero da sole, l’armadio spalancò lentamente le sue ante. Si alzò dal letto e le richiuse.

Si avvicinò alle tre candele, le stette a guardare con occhi vitrei, il sudore le colava sul viso, si liberò della tunica e del velo, si tolse le mutandine ed il reggiseno di cotone bianco restando nuda, ritta a fissare le tre candele votive che ardevano di una fiamma verde ed intensa.

La suora toccò la fiamma di una delle tre, era fredda, la prese tra le mani e soffiò, un po’ di cera le colò sulle mani, era fredda anch’essa. La fiamma si spense. Si sedette sul bordo del letto, allargò le gambe, sentì un brivido caldo salirle dal ventre fino ad arrivare al volto, le avvampò le guance. Spinse con entrambe le mani il cilindro di cera, largo ed irregolare, dentro di sé.

Era vergine ma non avvertì dolore, il rosso del suo sangue sporcò la candela, lei continuò a spingerla tra le cosce, le allargò di più, ripiegò la testa all’indietro e chiuse gli occhi iniziando a gemere ad ogni spinta; con le dita della mano libera teneva aperte le grandi labbra della fica, inarcò il bacino, ansimava come un animale in calore.

Si alzò e prese un piccolo specchio che teneva nel cassetto del comodino, pose lo specchio su una sedia che aveva avvicinato al letto, lo sistemò in modo che lo specchio rimandasse l’immagine della sua fica oscenamente spalancata.

La cera della candela, a contatto con il calore del suo corpo, si fece più morbida, arrotondandosi nella parte che penetrava nella fica fradicia e calda. Suor Kim guardava con eccitazione crescente l’oggetto che si muoveva dentro di sé lordo di umori. Non si era mai soffermata sulla sua intimità, mai si era toccata.

Ora, vedendo quella candela squassarle la vagina aprendole le labbra della fica, provava una sensazione esaltante, perversa. Ogni spinta aumentava la sua voglia di sentirsi piena, sporca, lurida come una puttana.

Si girò, il culo rivolto verso lo specchio, divaricò le cosce, scorse l’immagine del suo buchino stretto, umettò con la lingua le dita e se le passò tra le natiche, le leccò con gusto saggiando per la prima volta il proprio sapore. Sentì la sua carne tenera cedere gradualmente mentre il dito si faceva strada nel suo culo, gemette quando lo spinse a fondo.

“KIIIIMMMM… FALLO ORAAAA… SSSSIIIIIIII ”

Di nuovo udì la voce, non proveniva da un punto preciso della stanza, era come se la voce l’avvolgesse. Suor Kim sapeva cosa voleva la voce, sapeva cosa doveva fare.

Insaziabile, poggiò la punta della candela a contatto del suo buchino inesplorato e morbido, spinse con forza, lo sentì cedere, lentamente, dolorosamente. Il cilindro di cera penetrava nel suo culo centimetro dopo centimetro, la ragazza mugolava, aveva le labbra aperte, il respiro affannato, quasi sospeso, gli occhi chiusi nell’estasi del godimento.

Continuava a guardare nello specchio, vedeva il suo piccolo orifizio slargarsi osceno allo scivolare della candela tra le sue natiche, spingeva forte, voleva infilarla tutta dentro di lei, voleva riempire tutta se stessa in quell’attimo perverso. Strinse con la mano libera un proprio capezzolo fino a farsi male, sentì i muscoli dello sfintere contrarsi intorno alla candela ben piantata nel suo culo, urlò, l’orgasmo la sorprese, inaspettato ed intenso.

Si accasciò, letteralmente, sul letto, le natiche all’aria, la candela ancora profondamente dentro il suo culo. Le sue cosce erano madide di sudore, sporche, gli occhi fissi sullo specchio. Un occhio, malevolo, malato e spento, la fissava da dentro lo specchio mentre lei era ancora in quella posa oscena, lei gli parlò, sussurrando: “Per te, solo per te, per sempre!”

***

Chiesa di Monte Crucio – Gianna e Giulio

Gianna era scesa nella chiesa del monastero, era pomeriggio tardo. Si era sposata con Leandro tre giorni prima, in Calabria. Erano venuti a Mezzana per il viaggio di nozze. Molto religiosi entrambi, avevano deciso per un viaggio all’impronta della spiritualità e del riposo. L’ostello del monastero era piaciuto loro molto, si potevano fare lunghe passeggiate nel bosco, dietro la chiesa, o si poteva meditare in silenzio all’interno del bellissimo chiostro centrale.

Suo marito era rimasto in stanza, avevano visitato il bellissimo centro di Mezzana ed avevano pranzato in una delle trattorie caratteristiche della cittadina. Ora Leandro giaceva satollo sul letto, russava come un ghiro e lei si stava annoiando.

Pregava in ginocchio su una delle panche che riempivano quasi per intero la navata della chiesa, Gianna non riusciva a scacciare la noia di quel pomeriggio. Un rumore la distolse dai suoi pensieri, girò lo sguardo: era l’inserviente a servizio del monastero, Giulio.

L’uomo stava spazzando tra le panche, quando il bastone della scopa urtava il legno delle sedute il rumore rimbombava tra le pareti della chiesa amplificandone l’effetto.

Gianna sentiva gli occhi dell’uomo addosso, non le piaceva.

Giulio era basso, aveva i capelli grigi, degli occhi scuri e piccoli come un serpente. Era sempre vestito con una camicia bianca informe su cui spiccavano gli aloni di sudore da sotto le ascelle, la sua pelle era unta e screpolata.

La donna si isolò nella preghiera, mani giunte, capo chino, cercò di ignorare la presenza dell’uomo.

Giulio non staccava gli occhi dalla donna che stava pregando.

“È una bella vacca…” pensava l’uomo mentre spazzava svogliatamente, “guarda che fregna, me la scoperei qui davanti l’altare, altroché…”

Le squadrò il culo, la donna indossava un vestito bianco, decorato con una fantasia di fiori rossi e neri, le scarpe erano rosse con un tacco appena pronunciato, il vestito fasciava il suo seno rigoglioso. Giulio sognava di tuffarsi tra quelle tette. Si avvicinò alla donna, aveva una vistosa erezione, iniziò a spazzare la fila di panche di fronte a Gianna, fece in modo di far risaltare il bozzo che tendeva il tessuto dei pantaloni.

Gianna, ad occhi chiusi sentì l’uomo che si era spostato proprio di fronte a lei, quell’uomo non aveva rispetto, alzò lo sguardo, trasalì, vide il bozzo duro che l’uomo aveva tra le gambe, arrossì, lui se ne accorse. La donna, con fare indignato si spostò nella prima fila di panche, a ridosso dell’altare, si inginocchiò di nuovo, Giulio ammirò il suo culo morbido nell’atto della genuflessione, gli stava scoppiando il cazzo.

La nebbia verdastra iniziò a fuoriuscire dalla crepa nel sigillo, Gianna non si accorse della bruma che si andava addensando ai suoi piedi, sentiva il fruscio della scopa farsi più vicino.

“Che cazzo è questa roba…” esclamò Giulio.

“Ma insomma, si contenga, siamo in chiesa, un po’ di rispetto…” si adirò Gianna.

“Che calmo e calmo, guardi ai suoi piedi, quella roba verde, che cos’è? mai vista in vita mia…”

Gianna si accorse della nebbia che le stava avvolgendo le gambe, era verde, brillava nella penombra della chiesa di un verde opaco, malato. I due, incuriositi dal fenomeno, cominciarono a guardarsi intorno cercando il posto da dove aveva origine la nebbia.

***

Ufficio di Suor Brigida

Suor Brigida aveva avvertito la Santa Sede, le era stato passato il Cardinale Mazzi, il suo referente diretto all’interno del Vaticano. Il vescovo era quello che l’aveva nominata a capo della congrega di suore nel monastero ed era il suo mentore. La badessa gli aveva riferito della crepa nel sigillo raccontandogli di Padre Alphonse e della sua scoperta. Il cardinale l’assicurò che avrebbe mandato qualcuno di fiducia a controllare, le raccomandò di tenere, nel frattempo, la cosa sotto controllo. Dopo i saluti di rito Suor Brigida chiuse la comunicazione.

Scriveva su un diario delle annotazioni quando entrò nella sua stanza Carlotta, la figlia della famiglia Lorci, i laici che vivevano nella foresteria e che lavoravano al servizio del monastero. La ragazza era giovanissima, diciannove anni appena compiuti, un bel viso pulito ed allegro, portava i capelli, color castano, a caschetto, era alta e longilinea, frequentava l’istituto commerciale di Mezzana, era all’ultimo anno.

“Dimmi Carlotta…” le chiese la badessa alzando i suoi occhi severi verso la ragazza.

“Mi scusi madre, le ricevute della Tergaflex sono state registrate ed archiviate, dobbiamo ancora ricevere quelle di giugno e luglio, dal loro ufficio amministrativo hanno detto che le manderanno a giorni.”

“Bene Carlotta, per oggi puoi andare, abbiamo finito.”

La ragazza stava uscendo quando la badessa la richiamò.

“Carlotta, dì a tuo padre che in chiesa c’è una crepa nella pietra ornamentale dietro l’altare, va chiusa, urgentemente!”

“Si madre.”

La ragazza uscì, Suor Brigida riprese a scrivere sul diario, era preoccupata, sentiva nell’aria qualcosa di negativo, la calma apparente che regnava nel monastero le faceva paura. E lei non aveva mai paura.

***

Giulio e Gianna

“Me lo aveva detto padre Alphonse di chiudere questa cazzo di crepa, ma guarda qui che strano!” esclamò Giulio.

“Insomma, il linguaggio…” lo riprese nuovamente Gianna.

“Guardi, è da qui che esce il fumo…” disse l’uomo ignorandola.

“È più una nebbia…”

“La chiami come cazzo le pare, ma è strano…”

Gianna stavolta ignorò l’ennesima parolaccia dell’inserviente, si chinò a guardare verso la crepa, la nebbia diventava sempre più densa, ora le aveva raggiunto le ginocchia, poteva scorgere l’apertura nella pietra nera solo agitando le mani diradando la caligine che li stava avvolgendo.

Giulio era rapito dalla vista del sedere della donna, così chinata sulla crepa metteva in mostra quel culo invitante, il suo cazzo era di nuovo duro, si mise dietro la donna, le spinse contro il culo la sua erezione, sentì il suo uccello adagiarsi tra le natiche della donna.

“MA COSA FA? È IMPAZZITO?” urlò la donna, la sua faccia era furiosa.

“Mi scusi…” rispose l’uomo, “…sono scivolato…”

“SCIVOLATO UN CAZZO! LEI E’ UN PORCO, LA BADESSA SARÀ INFORMATA DEL SUO COMPORTAMENTO!…”

La donna era su tutte le furie, le sua urla risuonavano tra le pareti della chiesa, la nebbia continuava a salire, si annodava sulle colonne, salendo fino al soffitto, la luminescenza sembrava aumentare all’aumentare delle urla di Gianna, fili sottili di bruma le penetrarono nelle narici, anche Giulio era completamente circondato da quella caligine malsana, ormai ne erano completamente ricoperti.

Era come sprofondare in acque gelide, i suoni erano scomparsi, la vista sfocata dalla nebbia, la sensazione di freddo bloccava le loro membra, le voci iniziarono a bisbigliare dentro di loro.

Gianna e Giulio, uno di fronte all’altra erano immobilizzati, la cacofonia di voci e suoni aumentava, il pavimento della chiesa iniziò a tremare, immagini oscene riempivano le loro menti.

Misteriosamente la nebbia fu risucchiata, in un mulinello, dentro l’apertura nella roccia, le voci scomparvero, gli occhi di Gianna e Giulio erano vitrei, spenti. Stettero fermi a fissarsi, paradossalmente l’erezione di Giulio era ancora presente, Gianna guardò la patta dell’uomo, una voce sensuale dentro di lei le ordinava di afferrare il membro dell’uomo, Giulio ammirava i fianchi prominenti della donna, vi poggiò le mani, l’attirò a sé.

Si spostarono dietro una delle colonne che delimitavano l’abside della chiesa, avvinghiati in un bacio perverso, le loro mani si intrecciavano frugando uno sotto le vesti dell’altro. Giulio le scoprì il seno abbassando con impeto il tessuto del vestito a fiori. Gianna infilò la sua mano nei pantaloni afferrando quel cazzo duro e grosso.

Gianna si staccò dall’uomo guardandolo come se si fosse accorta solo in quel momento di cosa stava facendo. Corse via, il ticchettio dei tacchi sul pavimento scomparve quando uscì dal pesante portone di legno, l’uomo restò appoggiato alla colonna, il cazzo teso gli doleva tra le gambe.

***

Gianna e Leandro

Gianna entrò in camera, il cuore che le batteva forte nel petto. Suo marito dormiva ancora, non era passata nemmeno un’ora da quando lo aveva lasciato. Riempì la vasca e vi si immerse, l’acqua calda e profumata le rilassò i muscoli, passavano i minuti e il ricordo di quello che era successo in chiesa svaniva lentamente.

Rimase nella vasca per mezz’ora, si asciugò e si mise a letto, Leandro bofonchiò qualcosa e girò la testa dall’altra parte, continuando a dormire.

Era un brav’uomo suo marito ma, pensava Gianna, non era un granché come maschio. Si sdraiò, completamente nuda, fissava il soffitto, il ricordo della nebbia era svanito, allargò le gambe, si toccò tra le cosce, la sua fica era bagnata. Guardò il marito, provò a scuoterlo, la sua mano gli accarezzò le spalle, scese verso l’inguine, si insinuò nei suoi slip.

“Dai Gianna, sono stanco, non ho voglia…” grugnì Leandro infastidito.

La donna guardò l’ora, erano le 19.30, aveva fame, una fame vorace.

“Ho fame!” disse rivolta al marito.

“Sei pazza, dopo quello che ho mangiato oggi il vedere solo lontanamente del cibo mi ucciderebbe!”

“Uff, io esco in paese, vado a cercare qualcosa.” Rispose lei.

Stizzita Gianna si diresse verso la valigia, poggiata su una sedia a lato dello specchio, frugò al suo interno cercando qualcosa da indossare.

Trovò un perizoma nero, trasparente, lo indossò e si girò a mirarsi allo specchio, il filetto del minuscolo indumento le spariva tra le natiche tornite e sode, mise su una camicetta bianca, molto scollata, senza reggiseno, i capezzoli trasparivano sensuali ed invitanti. Era indecisa tra una gonna grigia di cotone leggero ed una nera di pelle lucida, molto corta, si girò verso il marito che dormiva ronfando beatamente, scelse la gonna nera. Andò in bagno e infilò i piedi in dei sandali neri con un tacco a spillo dorato.

Si rimirò allo specchio, il rossetto color amaranto le dava un aria da puttana, si compiacque.

“Ciao tesoro, vado a mangiare qualcosa.” disse mentre usciva dalla stanza.

Leandro si alzò a sedere sul letto, gli occhi arrossati dal sonno.

“Stai uscendo veramente, non stavi scherzando! E come sei vestita?”

“No, ho fame, è tutto il pomeriggio che dormi, sono annoiata ed affamata, ho bisogno di carne! Poi… come vesto sono affari miei! Ciao!”

La donna uscì lasciando il marito a guardare la porta chiusa con aria smarrita.

***

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