Capitolo [part not set] di 11 del racconto Le mie vacanze in montagna

di Carol89

Il giorno seguente avevamo già programmato la prima gita, tanto per riprendere subito l’abitudine. Mio papà era un deciso sostenitore del fatto che l’inizio dell’estate era il momento più bello della stagione, in cui c’era meno gente in giro e non faceva ancora troppo caldo, e quindi era deciso a sfruttarlo sempre al meglio.

Mia mamma non si unì a questa prima spedizione: si era accordata il giorno prima di trovarsi con alcune amiche, una di loro sapeva fare un certo tipo di ricamo manuale e lo avrebbe insegnato alle altre. Giù in città mia mamma (che di nome fa Nicoletta) non avrebbe mai dedicato tempo ad attività simili, ma in montagna tutto cambiava: era più rilassata e le piaceva, a volte, giocare a fare davvero la mamma, anche se lei abitualmente era molto più concentrata sul lavoro e, nel tempo libero, sullo sport. Sia mia mamma che mio papà erano infatti molto sportivi, mia mamma perfino più di mio papà, almeno per quanto riguardava piscina e palestra, che frequentava sempre con grande costanza e impegno.
Dunque alla gita partecipammo solo in tre, io, Federica ed Enrico, alias mio papà. Partimmo di primo mattino, in macchina per spostarci rapidamente fino ad un paese in cima alla valle. Qui papà parcheggiò e, infilatici gli scarponi, caricati gli zaini ed afferrati i bastoncini, imboccammo il sentiero che si addentrava per i boschi e che ci avrebbe portato in quota. Destinazione: il lago di Panevino.
Partimmo di buon passo e facemmo la prima pausa a mattina avanzata: una breve pausa per bere e rinfrescarci. Eravamo appena usciti dal bosco, giunti al limitare delle conifere: da lì, gli alberi si facevano molto più radi e il terreno cominciava ad essere spoglio, solo erba e rocce e arbusti bassi. Il bosco all’inizio era stato fresco, poi, complice lo sforzo di camminare, avevamo avuto via via più caldo. Adesso che eravamo più in alto l’aria era più frizzante, ma non essendoci più alberi il sole picchiava più direttamente sulle nostre teste e i nostri corpi.
Mio papà si tolse la camicia e rimase a torso nudo. Si diede una bella incremata con la crema solare, anche perché era ancora parecchio bianco, come qualsiasi cittadino che non va a fare le lampade. Si legò la camicia in vita e rimise lo zaino in spalla, ed era pronto a ripartire. Io e mia sorella eravamo a posto: lei indossava una canottierina, che quindi era già abbastanza fresca, e calzoncini corti. Io avevo una maglietta bianca e, per ora, me la tenni addosso.
Ricominciammo a salire, decisi a raggiungere la nostra meta entro l’ora di pranzo. La prospettiva di mangiare era così un ulteriore stimolo a camminare svelti!
Trainati dal passo svelto di mio papà, dietro a cui sia io che Federica arrancavamo con un po’ di fiato corto, riuscimmo nell’impresa. Verso mezzogiorno e mezzo raggiungemmo il lago di Panevino.
Lago è una parola grossa. Il laghetto in quota è in realtà poco più che una pozza, perennemente ghiacciata d’inverno, freddissima d’estate. La sua bellezza è data dal fatto che trovandosi proprio in cima ad un motto, nessun altro monte o roccia vi si riflette dentro: l’acqua riflette soltanto il cielo. Il suo colore non è però azzurro, bensì un marrone-vinaccia, da cui il nome che gli hanno dato. Il fondo del lago è infatti fangoso e, mi ha spiegato tante volte mio papà, nella terra c’è molto ferro, che la colora di rosso e che colora anche l’acqua.
Quando arrivammo lassù eravamo soli. A inizio estate era normale, infatti non avevamo incontrato nessuno neanche sul sentiero. Solo noi tre, il lago, l’erba e il cielo.
Trovammo una zona d’erba priva di rocce e ne facemmo il nostro campo per il picnic e per un po’ di meritato ozio. L’aria era fresca, ma il sole ormai era a picco e batteva caldo sulle nostre teste e sulla nostra pelle. Scartammo subito i panini che ci eravamo portati e li divorammo, seguiti da frutta e da un po’ di cioccolato. Bevemmo l’acqua delle nostre borracce e poi papà per primo diede il buon esempio, e si stese al sole a riposare.
Federica, fra noi tre, era naturalmente quella più interessata all’abbronzatura. Subito dopo mangiato si sfilò allora la canottierina, restando in reggiseno. Essendo da soli era una cosa abbastanza normale. Si stese anche lei al sole, a circa un metro da papà. A me di prendere il sole non importava, e mi sedetti ad intagliare un bastoncino di legno, lanciando qualche occhiata in giro e anche a loro due.
Mia sorella era una bella ragazza. Non di quelle bellissime, tipo piccole modelle. Più tradizionale, con i suoi capelli castani, lisci e lunghi, e con la carnagione un po’ scura, che si abbronzava facilmente. Però senz’altro bella, alta e magra, come del resto erano alti sia mia madre che mio padre. Di solito non la vedevo tanto spesso in reggiseno, quindi lanciai qualche occhiata curiosa, aiutato dal fatto che lei era a occhi chiusi e dunque potevo guardarla senza essere visto. Il reggiseno che indossava era bianco, di quelli adatti a fare sport, per quello che potevo capirne. Aveva spalline elastiche e piuttosto larghe, e le coppe erano ampie, elasticizzate, fascianti. Non era tanto gonfio: sapevo che mia sorella non aveva tanto seno, non lo aveva mai avuto. Quel giorno ero semmai stupito del contrario: benché fosse stesa sulla schiena, e benché il reggiseno fosse di quelli fascianti, che comprimeva piuttosto che “gonfiare”, sul petto aveva due collinette ben marcate, piuttosto evidenti. Forse avevo sottovalutato le sue doti naturali e ne aveva più di quel che credessi.
Al di là di quello, aveva un torso magro, la pancia piatta e liscia, la vita stretta, le spalle magre e dritte. Un fisico da sportiva ma non da palestrata, a differenza, devo dire, di mia madre, che negli ultimi anni si era dedicata davvero tanto alla palestra: di lei mi colpivano sempre i muscoli ben evidenziati, quando la vedevo in costume o comunque poco vestita.
Riposammo per una mezz’oretta, poi mio padre scattò in piedi, di nuovo operativo come suo solito. E come al solito scattò la proposta:
– Ragazzi io vado un pezzo più su, già che siamo qui voglio raggiungere anche la cima del Todun che c’è là sopra. Sono anni che non ci vado, c’è una vista bellissima.
– Ma quanto ci vuole da qui? – chiesi prontamente io, che non mi vergogno di essere il più pigro della famiglia.
– Con buon passo in un’oretta siamo su. Che fate, venite?
– Mmm ma poi ripassi da qui per scendere? – mi informai astutamente.
– Sì, certo. Tu Federica vieni?
Ecco il trabocchetto. Mio papà chiese subito a Federica, ancora stesa a prendere il sole, ma che di certo non avrebbe rifiutato. E io di certo non sarei rimasto da solo come uno stupido ad aspettarli.
Cinque minuti dopo eravamo di nuovo in cammino, lungo un sentierino ripido che si inerpicava in mezzo all’erba. Papà apriva la fila, io la chiudevo.
Davanti a me camminava mia sorella, che si era rimessa la canottierina ed aveva sulla schiena il suo piccolo zaino, compatto e con il minimo indispensabile, come ci avevano insegnato fin da piccoli. Lei e papà parlavano, io ero concentrato ad ansimare e tenere il passo: la mancanza di motivazione e il fatto che me ne sarei stato volentieri a riposare al lago, già più che soddisfatto della salita del mattino, evidentemente influivano anche sul mio fiato. Camminavo quindi in silenzio, senza nemmeno ascoltare troppo la loro conversazione, e guardavo davanti a me, dove mettevo i piedi. Giocoforza vedevo quindi anche piedi di Federica, che mi precedeva. Ma più che i piedi, mi fissai a guardarle le gambe, lasciate scoperte dai calzoncini corti, e in particolare i polpacci: di fronte a me li vedevo contrarsi, con i muscoletti che si tendevano ad ogni passo, ritmicamente. Quello che mi colpiva è che i suoi polpacci erano piccoli, lunghi e sottili, affusolati e dalla pelle liscissima. Apparivano delicati, e mi sorprendeva il fatto che la loro forza fosse sufficiente a farla progredire in quella salita. Papà aveva gambe forti, io stesso avevo senz’altro più muscoli di lei, anche se ero magro, perché giocavo spesso a pallone con gli amici. Ma lei, con quelle gambe così snelle e delicate, riusciva a camminare anche più svelta di me.
Comunque quei polpacci erano proprio belli, e mi trovai a fissarli a lungo. Avevo perfino la curiosità di toccarli, anche se mi sembrava un po’ strano, trattandosi pur sempre di mia sorella. Fra l’altro, prima di allora, le gambe delle ragazze non mi avevano mai attratto particolarmente: ero sempre stato attratto più dalle tette e dal sedere. Se non altro quella vista mi allietò la salita, ridandomi un po’ di buonumore.
Arrivammo finalmente in cima e, non essendoci lì intorno vette più alte su cui salire, ci godemmo il panorama (effettivamente bellissimo) per poi iniziare la discesa verso casa.
La discesa potrebbe sembrare la parte più riposante, ma chi cammina in montagna sa bene che non è così: se in salita si fatica con il fiato, in discesa a soffrire sono le gambe, che devono continuamente frenare. I muscoli, soprattutto quelli delle cosce, sono sottoposti ad un grande sforzo. Chi non è ben allenato, è proprio durante la discesa che rischia maggiormente di farsi male, magari cadendo o prendendosi una storta.
Ovviamente mio papà intendeva scendere senza pause, dritto fino alla macchina, e Federica gli stava dietro senza problemi. Io mi ritrovai così nuovamente a fare l’ultimo della fila: qualche pausa l’avrei fatta volentieri, ma con quei due che andavano come dei treni non era proprio possibile.
Ripresi quindi le mie osservazioni e, oltre a godere del bel panorama e, appena rientrammo nel bosco, delle splendide conifere, concentrai nuovamente l’attenzione su mia sorella che mi precedeva. Di nuovo mi persi ad osservare i suoi polpacci affusolati che si contraevano e lavoravano, ma li notavo meno rispetto a prima, in salita. Così allargai un po’ la mia osservazione e diedi qualche bella occhiata anche al suo sedere, ben fasciato dai pantaloncini corti e aderenti. Anche in questo caso, sapevo bene che Federica aveva un bel sedere, magro e sodo, ma prima di allora non mi ero mai messo ad osservarglielo direttamente, anche perché non c’era mai stata probabilmente l’occasione… e poi, chi si mette a guardare il sedere della propria sorella? Semmai guardavo quello di altre ragazze.
Lì però altre ragazze non ce n’erano, dovevo in qualche modo far passare il tempo e distrarmi dalla fatica, e il sedere di mia sorella era proprio di fronte a me, in bella vista, fasciato nei pantaloncini aderenti: insomma, anche volendo era difficile non vederlo.
Mentre passavano i minuti e scendevamo, pian piano le mie occhiate divennero sempre più frequenti, finché mi resi conto che glielo stavo proprio guardando fisso. Osservavo come si piegava e contraeva mentre lei saltava agilmente da un sasso all’altro, procedendo spedita e sicura sul sentiero sconnesso. Notai che non aveva proprio un filo di grasso, appariva sodo e rotondo. E sode e snelle erano anche le cosce, almeno per la metà abbondante che era lasciata scoperta dai calzoni corti.
Mi prese un’idea che nel giro di pochi minuti divenne proprio un’ossessione. Come prima, in salita, avevo apprezzato (a sorpresa) la vista dei suoi polpacci che si contraevano sotto sforzo, ora mi venne voglia di vedere come si contraevano le sue cosce, in particolare davanti, i quadricipiti: i muscoli insomma che lavoravano di più in discesa.
Il pensiero divenne talmente ossessivo, che alla fine escogitai un piano. Accelerai il passo ed affiancai Federica, e con una scusa mi misi a parlare con lei di qualcosa, giusto per poterle stare di fianco per qualche metro. Mentre lei mi rispondeva, dovendo guardare a terra dove mettevo i piedi, riuscii così anche a lanciare qualche buona occhiata alle sue gambe, e a vedere i quadricipiti delle sue cosce che si contraevano sotto sforzo. Fu una rivelazione: anche in questo caso, i suoi muscoli erano snelli, lunghi e sottili, non certo da palestrata. Eppure era bellissimo vederli contrarsi, sulla coscia snella e liscia, e vedere che sforzandosi riuscivano benissimo a frenarla e a farle superare ogni asperità del terreno.
Poco dopo tornai al mio posto in coda, ma quelle visioni mi riempirono la mente e mi fecero anche fare qualche fantasia mentale, insomma mi occuparono tanto che quando arrivammo alla macchina il tempo mi sembrava essere volato.

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