Capitolo [part not set] di 9 del racconto L'articolo

di Altramira

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Parte sesta – Sguattera

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L’indirizzo era quello giusto. Si trovò di fronte a una saracinesca abbassata, vicino c’era una piccola porticina di ferro mezzo arrugginita e con parti di vernice grigio topo che si staccavano dal metallo. Ormai non possedeva più né vestiti né intimo, da quando le era stato ordinato di spedire tutto a un indirizzo e ogni volta si vestiva con ciò che le veniva recapitato a casa. Questa era la volta di un aderentissimo vestito di maglina bianca che le arrivava a malapena sotto le natiche e un paio di scarpe bianche a pianta stretta e con sottilissimi tacchi di 15 centimetri. Quindici minuti di attesa, ferma su quel marciapiede. Si sentiva in mostra come una puttana che attende i clienti sul ciglio della strada. Poi la porticina si aprì.

-Sei tu quella che ha mandato la contessa?- chiese una voce alle sue spalle.

Federica si girò. Una donna sulla quarantina, ben messa e con il collo largo era appoggiata allo stipite della porta e con la sua mole occupava tutto il passaggio. La giornalista annuì senza parlare.

-Vieni dentro. C’è del lavoro per te.

Federica si mosse, un po’ impacciata su quei tacchi la cui definizione “a spillo” coincideva con la realtà. La parte più stretta che toccava il suolo aveva un diametro non superiore a due millimetri, mentre la parte attaccata alla scarpa non superava il mezzo centimetro. Quasi barcollando e facendo attenzione ai gradini di metallo zigrinato, arrivò davanti alla donna.

-Io sono Vera. Seguimi.

Vera si voltò, lasciando libera la porticina. Entrarono in uno stretto corridoio, umido e con le pareti coperte da intonaco, vecchio di chissà quanto, ammuffito e mezzo scrostato.

-Per essere una sguattera sei di buona società, sembra.

Federica era muta.

-Sei pure una sguattera maleducata, a quanto pare. Nessuno ti ha insegnato a rispondere alle domande?

La giornalista cercò di rimediare.

-Sì, ma solo quando mi dicono che posso parlare.

Vera si fermò all’improvviso. Federica sentì la mano pesante sulla nuca. La spinse in basso e la fece cadere a terra.

-Allora, visto che sai parlare, rispondi quando ti faccio le domande. Intesi?

Dolore, umiliazione, vergogna.

-Sì, ve bene. Mi scusi.

Una pedata ben assestata su entrambe le natiche la fece trasalire.

-Ora comincia a camminare come s’addice a una sguattera del tuo rango. A quattro zampe. Federica proseguì per il corridoio. Poteva sentire il vestito che era salito, mettendo a nudo metà del suo sedere e sicuramente anche il suo sesso. La stoffa bianca aderente saliva di qualche millimetro a ogni passo.

-Hai un bel culo, sguattera.

Doveva rispondere o no? Decise per il sì e ringraziò.

-Cammina.

Un paio di calci forti la colpirono sulle natiche. La giornalista si affrettò e finalmente il corridoio si aprì su un ampio locale buio: a Federica sembrò una specie di magazzino abbandonato. Si guardò attorno, quando Vera le permise di fermarsi. Polvere e sudiciume in ogni posto. La donna s’avvicinò al muro e accese l’illuminazione: tre lampadine a incandescenza attaccate ai fili che scendevano dal soffitto. Lo sporco assunse così una connotazione più veritiera, più tenace. C’erano pozze d’acqua lurida, qua e là, mezzo fangose per la polvere o, verosimilmente, la terra che le riempiva per una buona parte. Macchie di muffa in ogni posto, ma soprattutto sui muri e, al centro di quello spazio enorme, un secchio e un mucchio di stracci bagnati. Vera le indicò di avvicinarsi al secchio e di prenderlo in mano. Poi le disse ancora di seguirla e la portò su per una passerella metallica, zigrinata come le scale metalliche esterne. Le ginocchia di Federica cominciavano a fare male. La superficie non liscia della passerella le procurava dolore. A quattro zampe, con il secchio vuoto in una mano e il braccio alzato per non farlo toccare in terra, era costretta a procedere in una posizione particolarmente scomoda che da subito cominciò a procurarle dolori muscolari dietro la schiena. Dopo una decina di metri la passerella finì e Federica si trovò di fronte a una vecchia pompa per l’acqua.

-Questa è la pompa, là c’è il sapone- disse Vera indicando un grosso pezzo di sapone di Marsiglia -il posto da pulire l’hai visto.

Ora mettiti al lavoro e, ovviamente, tutto in ginocchio e silenzio assoluto. Da brava sguattera.

Il tempo passava e le ginocchia di Federica facevano sempre più male. Le braccia erano stanche e il vestito bianco era oramai ridotto a una sozzura. Portava il secchio, quando aveva bisogno di riempirlo, con due mani procedendo in ginocchio: il massimo dell’elevazione che le era permessa. Per il resto del tempo doveva rimanere a quattro zampe. Vera s’accostò al punto dove stava strofinando. Una pozza fangosa e puzzolente. La mano calò sulla testa di Federica e l’agguantò per i capelli, ficcandole la faccia nella melma.

-Brutta troia. Non vedi che l’acqua è da cambiare?

Le tenne il viso premuto nella pozza lurida per qualche istante, poi la trascinò vicino al secchio e vi immerse la testa della giornalista.

-Ti sembra un’acqua che può lavare questo pavimento?

Federica quasi annegava, ma riusciva a sentire la voce, perché le orecchie erano fuori dall’acqua. Uno strattone ai capelli, una spinta e fu a terra.

-Levati quel vestito da troia innocente.

Federica si spogliò. Vera prese il vestito e lo sbatté a terra.

-Ora userai questo per pulire. Vediamo se ti ricordi di cambiare l’acqua.

Nuda come un verme Federica prese il secchio e s’avviò alla pompa.

-E ricorda, fino a che non sarà tutto pulito, non te ne vai di qua.

Quando finì erano le sei della mattina seguente. Federica era più simile a un animale che si era rotolato nel fango che a una giornalista. Sul suo corpo vi erano sedimenti di ogni genere e sporcizia, ma il pavimento del capannone era pulito. Vera la portò alla pompa, le disse di indossare il vestito lurido e poi le passò sul viso gli stracci.

-E brava la mia sguattera. Ce ne hai messo di tempo, però ce l’hai fatta. Come compenso potrai andare a casa vestita. Vera le assestò gli ultimi due calci e le urlò di sparire velocemente. Federica si ritrovò in strada. Il vestito era fradicio e sozzo e anche lei non era più pulita del vestito. Dovette fare un tratto di strada a piedi prima di riuscire a prendere, piena di vergogna per gli sguardi che le si calamitarono addosso, uno dei rari mezzi pubblici che si possono trovare a quell’ora del mattino.

***

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