Capitolo [part not set] di 9 del racconto L'articolo

di Altramira

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Parte quarta – La statua

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 Nella tasca del cappotto c’era un foglietto piegato in due. “Parrucchiera per signore” c’era scritto e sotto l’indirizzo. Dovette attraversare buona parte della città e dovette farlo a piedi, come le istruzioni del biglietto dicevano. Venne accolta bene e si limitarono ad acconciarle i capelli. Li tirarono su in una bella acconciatura che prevedeva una treccia, portata poi verso l’alto e aderente alla testa. In questo modo il suo bel collo veniva messo in risalto. Quando la parrucchiera finì le consegnò un messaggio a voce.

-Ora puoi andare a casa. Appena entri, senza levarti né cappotto né scarpe ti metti in ginocchio guardando la tua porta di casa, proprio sotto il citofono. Aspetti finché qualcuno non suona. Poi scendi e troverai una macchina che ti aspetta.

Non c’era che dire. Non aveva un attimo di libertà personale e ciò che più la metteva a disagio era il fatto che chiunque la contessa le facesse incontrare, la cassiera e le commesse, la parrucchiera e chissà quante altre persone in futuro, conoscevano perfettamente la sua condizione e maliziosamente se ne approfittavano. La contessa la controllava dentro e fuori di casa. Si sentì imprigionata. Quella sensazione di prigionia l’accompagnò per le quattro ore che rimase in ginocchio davanti alla porta d’ingresso, aspettando che il citofono suonasse. Quando accadde, fu come una liberazione. La macchina nera con i vetri scuriti la stava aspettando. Un uomo teneva la portiera posteriore aperta e l’aiutò a salire.

-Deve levarsi il cappotto non appena si siede.

La portiera produsse un tonfo sordo, doveva essere pesante. Il motore si accese e Federica si liberò del cappotto, rimanendo completamente nuda. Il vano passeggeri era separato da quello della guida tramite un vetro anch’esso scuro, ma la giornalista temeva che permettesse la visione solo dal reparto anteriore a quello posteriore. Si guardò attorno e tentò invano di scrutare attraverso il vetro scuro. Si chiese per quale motivo l’autista le stesse dando del lei, se ne era resa conto solo in quel momento e la sua curiosità la spinse a chiederlo.

-Perché così è stato deciso.- Si limitò a rispondere l’uomo.

-Il vano è provvisto di telecamere. La contessa la sta osservando. Purtroppo questo vetro nero non mi permette di ammirarla.

Federica si sentì ancora in prigione.

-C’è un cassettino al centro. Lo apra, c’è una benda dentro. La metta.

La giornalista fece come le veniva detto. Nel cassettino c’era una striscia di stoffa nera. La mise sugli occhi e l’annodò dietro la nuca.

-Ai lati del sedile ci sono due appoggi per i polsi. Deve usarli.

Si guardò ancora attorno e li vide. Erano un po’ spostati verso il vetro posteriore. Appoggiò i polsi e immediatamente questi appoggi divennero due manette che le bloccarono le braccia in quella posizione aperta e un poco verso il dietro. Percorsero molta strada. Federica si sentiva osservata. Era come se tutti potessero vederla, anche se era a conoscenza dei vetri scuri. Temeva che qualcuno la vedesse. Qualcuno però la stava sicuramente guardando: la contessa. Udì il rumore della ghiaia sotto gli pneumatici. L’auto si fermò, i polsi furono liberati e la portiera si aprì. La voce di una donna la chiamò.

-Federica. Scendi.

Il tono era gentile, ma non ammetteva repliche. Scese e subito sentì l’aria che raffreddava il suo corpo nudo.

-Ora cammina dritta fino a che non ti dico di fermarti. Dobbiamo arrivare alla villa.

Cosa significava che dovevano arrivare alla villa?

-Ma dove siamo?- chiese preoccupata di trovarsi in mezzo a una strada carrabile e quindi esposta a eventuali sguardi.

-Tu cammina. Hai forse dimenticato il contratto?

-No Signora- rispose la giornalista.

Si rendeva conto solo adesso che tutto ciò che aveva sottoscritto doveva essere mantenuto. Il freddo le fece inturgidire i capezzoli, e venire la pelle d’oca. Camminarono per parecchio tempo e lei, con le scarpe che si trovava a indossare, faceva fatica a percorrere quella strada cosparsa di ghiaietto. -Fermati.- Un tocco sul braccio.

-Lasciati guidare, ci sono degli scalini.

Gentilmente la donna accanto a lei la guidò, avvertendola se stava mettendo un piede in fallo. Nel frattempo il suo corpo quasi non sopportava più il freddo. Sentì una chiave entrare in una serratura e aprire una porta. Fu condotta dentro. Caldo finalmente, la sensazione fu molto bella. La sua pelle si stava scaldando e il calore penetrava nel suo corpo, prima avvolgendola e poi superando la barriera della pelle e riscaldandola tutta poco alla volta. La donna la guidò ancora, le fece salire sei alti gradini, probabilmente di legno, e la fece sistemare poi su un ripiano ancora sopra l’ultimo gradino.

-Delicatamente, con un piede controlla quanto è larga la pedana su cui sei salita.

Lo spazio per i suoi due piedi. Non vi era altro attorno a lei.

-Sei su un piedistallo a tre metri dal pavimento, Federica. Se ti muovi cadi e ti rompi le ossa. Sarai la nostra statua decorativa per oggi. Nessuno ha il permesso di toccarti e, in ogni caso, sei in alto e nessuno ci riuscirebbe. Non potrai vedere niente, assaporerai solamente delle sensazioni. Non potrai parlare e nemmeno muoverti. Sei una statua. Ora ti lascio, il party sta per iniziare.

Di lì a poco tempo molte voci cominciarono a parlare insieme, Federica captava discorsi differenti ognuno con il suo filo. Voci di donne. Tintinnio di bicchieri che venivano avvicinati per i brindisi a scoppiettii di tappi di spumante che indicavano l’apertura delle bottiglie. Il vociare si fece più confuso e le voci aumentarono. Stavano arrivando parecchie persone, ma Federica non riuscì a distinguere voci maschili, doveva trattarsi di un party privato tra donne. Le scarpe erano quasi completamente aperte e gli alti e sottilissimi tacchi facevano sì che il suo equilibrio fosse precario. Si sentì osservata, sapeva che le ospiti di quella festa la guardavano da ogni angolo e prospettiva. Scrutata in ogni suo minimo recesso. Spogliata della sua copertura dignitosa, dei suoi vestiti, ed esposta come un trofeo o peggio ancora, proprio come una statua, un pezzo da mostrare. Voci confuse, le gambe facevano male, i tacchi traballarono. Riuscì a ritrovare l’equilibrio senza muoversi, almeno così le parve.

La giornata scorse lenta, ma poco alla volta le voci si diradarono, rimase solo quella della sua conduttrice che la fece scendere e la condusse all’auto, dove poté indossare nuovamente il cappotto. Poi, finalmente a casa. Nella sua prigione video-sorvegliata, dove almeno era sicura che solo la contessa potesse vederla.

***

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