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di Milka
Capitolo 6 – Resta lì
Diluvia.
Giustamente
non potevo pensare di tornarmene a casa tranquilla e senza
imprevisti. No, sarebbe stato troppo facile! Dovevano mettersi a
cadere secchiate d’acqua dal cielo, per coronare questa
giornata così… bo, sinceramente non riesco neanche a
trovare un aggettivo per descriverla.
E
ovviamente sono senza ombrello. Certo, scontato, non serviva neanche
dirlo. Guardo l’orologio. Tra dieci minuti ho il treno, se
perdo questo poi dovrò aspettare due ore per il prossimo. Ho
voglia di mettermi ad urlare.
Devo
correre. Non ci sono alternative. Sotto un nubifragio, che promette
grandine, con una gonna sopra il ginocchio, senza calze, senza
ombrello. Oh e, dimenticavo, senza mutandine.
Non
ho tempo di pensare ad una soluzione migliore, ammesso che esista,
devo muovermi.
Infilo
il cappotto, poco più corto della gonna, sperando che possa,
per quanto possibile, ostacolarne la risalita durante la corsa, anche
se in realtà non ci credo nemmeno io. Borsa a tracolla,
capelli raccolti, spalanco la porta principale e comincio a correre
il più in fretta possibile.
Dopo
neanche cinquanta metri, sono bagnata fradicia. L’acqua mi
scorre lungo le gambe nude, la maglietta mi si appiccica dappertutto
e i capelli si potrebbero strizzare. Mi viene in mente l’indecisione
di stamattina nella scelta tra stivaletti e Converse. Ora sono molto
felice di aver scelto le seconde, almeno posso correre in maniera
dignitosa, per quanto possa essere dignitosa questa corsa disperata.
In genere impiego un quarto d’ora per percorrere tutto il
tragitto, ma, se tengo questo ritmo, dovrei farcela.
La
pioggia non sembra
avere la minima intenzione di calare d’intensità, ma
sono quasi a metà strada, e finalmente sono arrivata in zona
portici e potrò almeno fare un pezzo di tragitto al riparo dal
diluvio. Vedo il portico davanti a me e mi sto già gustando
l’idea di essere per un po’ all’asciutto. Arrivo
veloce, facendo un ultimo scatto, metto un piede sul pavimento di
marmo… ma la mia suola, bagnata e completamente liscia, non ne
vuole sapere di fare presa. E
così, dopo
una pattinata degna di Carolina Kostner,
finisco
a gambe all’aria e culo a terra. Sento una fitta di dolore
partirmi dall’osso sacro e rilascio un verso,
contenente un misto di sofferenza e rabbia.
–
Signorina si è fatta male? Tutto bene?
Una
voce mi distrae dalle mie
imprecazioni
in aramaico antico,
così
apro
gli occhi e vedo un uomo sulla sessantina e
corporatura decisamente robusta, venire
a passo svelto verso di me, in
apprensione.
–
Tutto apposto? Si è fatta male?
E’
a pochi passi da me e fa per chinarsi, ma all’improvviso sbarra
gli occhi e si blocca. Che
gli prende? Seguo il suo sguardo. E capisco.
Sono
ancora in posizione post-caduta. La schiena reclinata all’indietro,
appoggiata
ai gomiti, i
piedi a terra, le
gambe appena piegate, e…
aperte. Non
tantissimo, ma quanto basta.
Mi
si gela il sangue. Beccata…
Cerco
di mantenere il controllo, facendo finta di niente. Avvicino
le ginocchia
e mi metto a sedere, emettendo un lamento per provare a distogliere
la sua attenzione dalle mie cosce, ancora in bella mostra.
Fortunatamente funziona, lo vedo riscuotersi e tornare a concentrarsi
su di me, anche se in modo
molto goffo
e
impacciato.
–
Ha.. ha male da qualche parte? – balbetta l’uomo,
con uno sguardo da
cui traspare chiaramente la sua… Sorpresa? Imbarazzo?
Eccitazione? Forse un misto delle tre.
–
Tutto ok. Ho preso solo una gran botta.
–
Bene,
per fortuna… ehm… riesce ad alzarsi? Le serve aiuto?
–
Forse è meglio, grazie.
Aspetto
che mi allunghi una mano per aiutarmi, ma è di nuovo in tilt.
Ora il suo sguardo è fisso sul mio seno. La maglietta
completamente bagnata fa quasi da seconda pelle. E’
perfettamente adesa alle mie curve, e si vedono fin troppo
chiaramente i capezzoli fare capolino da sotto il tessuto sottile.
Evidentemente la combo di freddo, bagnato
e ‘situazione
imbarazzante’
è
stata troppo anche per loro, e hanno cominciato a ribellarsi al
leggero reggiseno in pizzo, che li teneva
costretti.
Ho
capito che aspettare l’aiuto del signore è inutile, non
lo biasimo poveretto,
così mi arrangio, rimettendomi in piedi da sola. L’uomo
all’ultimo si scusa, rendendosi conto di non essere stato di
minimo aiuto e, forse per rimorso, per
pietà
o per qualche malsana idea che ha cominciato a prendere forma nella
sua testa, mi invita ad entrare nel bar affianco, per offrirmi
qualcosa di
caldo
e per potermi “dare una sistemata”, dice lui. Certo.
Lo ringrazio per essersi preoccupato per me, ma rifiuto cordialmente
l’invito, e lui,
dopo
aver ricambiato
il mio saluto,
si fa quasi sfuggire un “grazie a te”.
Mi
rimetto a correre cercando di non pensare a quanto è appena
successo e ignorando il leggero dolore al fondo schiena, dovuto alla
caduta, consapevole di avere lo sguardo dell’uomo ben piantato
sul mio culo. Finalmente svolto a destra e mi libero di quella
sgradevole sensazione. Sono al limite di sopportazione. Voglio solo
andare a casa, farmi una doccia e collassare sul divano. Per oggi ho
vissuto fin troppe emozioni, sento che sto per crollare.
Dopo
qualche altro metro riesco a vedere la stazione all’orizzonte.
Butto uno sguardo all’orologio.
Cazzo!
E’ tardissimo. Ho solo tre minuti, ho perso un sacco di tempo!
Raggiungo
la stazione. Due minuti.
Scendo
le scale. Un minuto.
Arrivo
al mio binario. Zero.
Guardo
il treno scorrermi davanti agli occhi, ancora lento, essendo appena
partito, ma inesorabile. Non ce l’ho fatta, l’ho perso.
Lascio cadere la borsa a terra in un tonfo e mi volto, tirando un
calcio rabbioso al muro. Due ore adesso. Due ore! Fradicia, sola e
mezza nuda. Che diavolo faccio?
Seduta
su
una delle seggioline
destinate ai passeggeri in attesa dei treni, mi perdo a guardare le
gocce che cadono a
terra dai
miei vestiti, dai miei capelli, dalle mie gambe, per
andare a formare una piccola pozza ai
miei piedi.
Prendo
in mano il cellulare per controllare che funzioni ancora, sperando
che nella corsa non si sia bagnato troppo. Fortunatamente il display
si illumina e trovo
una serie di Suoi messaggi che non
leggo, non
sono in vena ora.
Ho bisogno di un po’ di conforto.
D’istinto compongo il Suo numero e premo il tasto verde.
Non
so perché, non
lo so davvero. Fra
tutte le persone che potrei chiamare decido di chiamare proprio Lei.
Mentre
ascolto i segnali di chiamata guardo il vuoto. Non so cosa Le dirò,
non so neanche perchè La sto chiamando, sento solo il bisogno
di sentire la Sua voce.
–
Pronto? – anche se il tono è distaccato come al solito, lascia
comunque trapelare una punta di sorpresa.
–
Ciao… – rispondo sconsolata.
–
Come mai questo tono? Che
succede?
–
Ho perso il treno…
–
E
ti abbatti così solo per questo? Su
dai, prenderai il prossimo.
Non
so che diavolo mi prende, ma probabilmente le emozioni di oggi sono
state troppe e troppo intense, e la rabbia mista a frustrazione per
aver perso il treno, dopo tutti quei casini per cercare di prenderlo,
è stata
solo
la
goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sento gli occhi bruciare. Le
rispondo con voce leggermente rotta.
–
Sì lo so… ma il prossimo è fra due ore, e sono
qui da sola… bagnata fradicia, perché si è messo a
diluviare, ed ero senza ombrello… sono
anche scivolata e un signo…
–
Sei in stazione a ****? – mi interrompe.
–
… sì, perchè?
–
Ok, resta lì.
E
riaggancia.
Rimango
con la bocca semiaperta a fissare lo schermo del
cellulare, su cui compare la scritta
‘chiamata
terminata’.
Che?
Cos’è appena successo esattamente? Cosa
diavolo significa ‘resta
lì’?
‘Resta
lì’. Non
vorrà mica dire che… Ma no! Non è possibile. O
forse sì?
Mi
arrovello sul significato di quell’assurda risposta,
cominciando a fare una serie
di ipotesi, e continuando a smentirle una dietro l’altra. Forse
semplicemente non voleva essere disturbata. Era impegnata e ha
preferito tagliare corto. Sì è così.
Probabilmente
è così…
Nei
successivi quindici minuti non mi muovo di un millimetro, con il
telefono in mano, e una tensione incredibile addosso.
Poi
sento il cellulare
squillare, il Suo nome compare
sul display. Rispondo dopo il primo squillo.
–
… pronto?
–
Ok, volevo solo essere sicura che fossi davvero tu…
Ma
qualcosa non quadra. La Sua
voce non viene dal telefono, ma dalla mia sinistra. Mi volto e La
vedo, per la prima volta.
Capelli
corvini, occhi scuri, bocca carnosa tinta di rosso. Alta e avvenente,
delle curve mozzafiato, messe
in risalto da un completo giacca e pantalone, è
chiaramente
di
ritorno
da una
giornata di lavoro.
Mi
osserva, senza proferire parola, con un sorrisino compiaciuto
stampato in viso, ben consapevole di quanto stia
succedendo nella mia testa, o meglio, di ciò che non
sta succedendo nella mia testa. Sono in panne. Rimango
a fissarLa,
guardandoLa
dal basso verso l’alto, completamente
spaesata. Non so cosa pensare, né tanto meno cosa fare o cosa
dire. Sento solo
lo
stomaco attorcigliarsi.
Dopo
interminabili secondi riempiti solo dai nostri scambi di sguardi, mi
decido a parlare.
–
Ma… cosa… perché?
–
Perchè sono qui per lavoro da ieri
e
ho
finito prima del previsto. Ti
ho sentita in difficoltà… e quando posso una mano la
do. Soprattutto a chi tengo.
Abbasso
lo sguardo e
sorrido. Non ero preparata a questo.
Se
prima il mio stomaco si stava solo attorcigliando, ora ha fatto una
vera e propria capriola.
–
Grazie…
– Le dico in un sussurro, e con il sorriso ancora stampato in faccia.
–
Il piano era di andare a bere qualcosa assieme, almeno
per tirarti un po’ su,
e poi darti uno strappo a casa. Ma tu sei in condizioni pietose. Non
puoi entrare in un bar conciata così!
Non
ha tutti i torti. I vestiti si possono strizzare, le scarpe
rilasciano
acqua ad ogni passo ed è meglio non parlare dei miei capelli.
Ho dato prime impressioni di gran lunga migliori. Con
Lei
a fianco poi, impeccabile in ogni dettaglio, mi sento ancora più
fuori posto.
–
Facciamo così allora. Passiamo
per il mio hotel,
così
ti fai una doccia veloce. Poi
ti posso prestare qualcosa di mio da mettere.
Sbianco.
Hotel? Doccia? Lei? Cosa
cosa?
La
sento sghignazzare.
–
Suvvia cara, di che hai paura? Non ti mangio mica.
Le
lancio un’occhiata, dalla quale è chiaro che non le
credo neanche per un secondo.
–
… magari non subito. – conclude la frase Lei, con l’ennesimo
ghigno in volto.
Scoppio
a ridere, rilasciando tutta la tensione. Finalmente
la frustrazione di prima se ne è andata, e devo ammettere che
ora sono quasi felice di aver perso quel
dannato
treno. Non avrei mai creduto potesse fare un gesto del
genere
per me. Ragiono sulla sua proposta. Non
me lo perdonerei mai se mi facessi sfuggire un’occasione del
genere, chissà poi
quando,
e
se, si
ripresenterebbe.
D’altronde
è Lei. Non ho nulla da temere. Credo…
–
D’accordo…
ci sto. –
Scatto
in piedi e comincio
a raccogliere
le mie cose.
Sul
Suo volto compare un sorriso soddisfatto.
–
Ottimo.
Andiamo. – fa per voltarsi, ma si blocca. – Quasi dimenticavo.
Piacere
di conoscerti, Daniela. – mi sta sorridendo sarcastica,
allungando una mano.
Nell’assurdità
della situazione non ci siamo ancora salutate. Le sorrido di rimando,
allungando la mano anche io, afferrando la Sua.
–
Piacere, Gior… – non faccio neanche a tempo a finire di parlare che
la Sua
stretta si è fatta più decisa e con uno
strattone mi ha attirata a sé,
ma ad una distanza sufficiente da non rischiare
di bagnarsi
i vestiti. La Sua
bocca è vicinissima al mio orecchio e mi sussurra:
–
Sappi
che non ho dimenticato la tua ricompensa, anche se penso tu sia
riuscita a consolarti in altro modo. Vedremo
più tardi come e se fartela avere… sempre che tu la
voglia ancora, ben inteso.
Rimane
a fissarmi negli occhi per alcuni secondi, e io non posso fare altro
che ricambiare il suo sguardo, pietrificata, sentendomi completamente
sopraffatta.
–
Meglio andare, o la tua amica lì sotto rischia di prendere fin
troppo freddo.
Si
stacca da me e si volta, dirigendosi verso l’uscita e
lasciandomi
senza fiato.
Ad
essere sincera, non
mi preoccuperei più di tanto per la mia amica. In questo
momento ha caldo. Molto molto caldo. Di
questo ne sono certa, visto che sento distintamente che si sta
squagliando. E,
da quel che sono le premesse, la sua condizione sembra essere
destinata solo a peggiorare.
Fine.
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