Capitolo [part not set] di 5 del racconto Le due rose nere

di Matt

Parte 1

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Quel giorno lo ricordo bene. Sì. Un pomeriggio d’estate molto particolare, caldo, afoso. Qui alla fattoria, poi, il clima si risente in maniera molto più intensa. Inverni gelidi ed estati torride. E quel pomeriggio il caldo era davvero insopportabile. Il lavoro sfibrante: gli animali da nutrire, l’orto da sistemare, i campi da tenere sotto controllo…

Sembrava una giornata come le altre. Tanto caldo e tanta fatica, come sempre. Solo una cosa era diversa dal solito. Francesca era rimasta da sola in casa, questa volta. Non era mai successo che i suoi la lasciassero in solitudine completa. Sì, d’accordo, ormai era abbastanza grande e matura.

Era davvero carina, e aveva veramente un bel corpo per la sua età: seno prosperoso, un sedere carnoso ma non troppo grande, labbra sempre colorate di nero e uno sguardo misterioso e affascinante. A dire il vero non la vedevo spesso, sempre rinchiusa nella sua camera, sempre vestita di nero, sempre indaffarata. Ma cosa facesse non sapevo. Ogni tanto notavo qualche sua occhiata maliziosa. Avvolta di mistero. Ma non ci facevo caso. Sono solo l’aiuto giardiniere io.

Quel giorno i padroni della fattoria erano usciti, come spesso facevano. Capii ben presto il perché la figlia fosse rimasta a casa: il campanello del cancello suonò. Una fanciulla entrò. “Ciao Greta, entra!”, disse una voce proveniente da dentro casa. Era un’amica di Francesca, ma non me ne curai e tornai al lavoro, che era davvero tanto.

Sono solo l’aiuto giardiniere io.

Ripresi in mano la zappa e continuai. Ogni colpo sul terreno una goccia di sudore. Il sole sempre più intenso, la sete che mi divorava, il caldo afoso: dovetti togliermi la maglia e lavorare a petto nudo. Non sono solito vantarmi di mie qualità, però devo dire che col lavoro alla fattoria avevo messo su un fisico niente male. La paga era indecente, ma almeno mi tenevo in forma. E per fortuna avevo vitto e alloggio: dormivo in una camera non molto distante da quella di Francesca.

Quel giorno faticavo molto più del solito perché dovevo occuparmi di tutto da solo. Infatti, da quando avevo cominciato a prendere una certa confidenza con le mansioni, il giardiniere capo se ne stava spesse volte a casa sua e lasciava il da farsi tutto sulle mie spalle. Non potevo fare la spia però. Era stato lui a trovarmi il posto, e, in fondo, con la mia parola contro la sua i padroni avrebbero di certo dato ragione a lui. Così mi rimboccavo le maniche e giù di zappa.

Quindi anche quel giorno ero da solo. Ah no, è vero. C’era Francesca. E la sua amica. Mentre lavoravo mi tornava in mente l’istante in cui era entrata. Mi aveva lasciato un momento bloccato, quasi inerme. Mi aveva guardato con atteggiamento di sfida, uno sguardo quasi famelico. Conturbante. Pensavo e ripensavo a quel volto: occhi truccati, rossetto nero e lineamenti ben definiti. Sembrava forse più giovane di Francesca. Eppure, mi fece restare per un istante spaesato, e per diversi minuti ripensai al suo viso, al suo corpo. Perché la cosa strana era che, nonostante le avessi lanciato un fuggevole sguardo, quella gonna corta e l’andatura maliziosa continuavano a ronzarmi per la testa. Senza sosta. Ad ogni zappata. Ma il lavoro era molto e il tempo a disposizione poco.

Avevo sete. I padroni mi lasciavano totale libertà se avevo bisogno. Così decisi di entrare in casa per prendere da bere.

Era una casa a due piani, ben fornita e di bell’aspetto. Non una villa eccessivamente lussuosa quella dei padroni. Ma bella grande sì. Lui era libero professionista e possedeva non poco distante dalla fattoria un’azienda agricola, che rendeva molto bene a quanto sentivo. Era una famiglia di benestanti, insomma. Oltre al villino e il capannone possedevano un grande fienile dove più volte avevo lavorato anch’io.

La cucina stava al piano di sotto; vi entrai ed aprii il frigo. Presi una bella bottiglia d’acqua e la consumai avidamente. Bevevo in fretta, e una goccia mi scivolò sul petto ancora sudato. Ero bagnato per l’acqua e per il sudore, e per un istante pensai di salire in camera a cambiarmi. “A che pro?” riflettevo. “Tanto devo lavorare ancora molto”.

Poi però mi decisi ad andare di sopra. L’idea di prolungare la pausa non mi dispiaceva. In fondo… Ero solo! I padroni erano fuori.

Salii le scale ed attraversai il salone. Enorme, fornito di mobili antichi e preziosi soprammobili. Ogni volta che vi passavo invidiavo il patrimonio della famiglia. Mi recai in camera mia: quella sì scarna davvero. Un letto, un armadio e una finestra. Nulla di più, ma tutto sommato a me non serviva altro.

Mi tolsi i pantaloni con le scarpe ancora addosso e rimasi in mutande, dato che la maglia l’avevo dimenticata fuori prima di entrare per ristorarmi. Stranamente, nel guardarmi tra le gambe, mi rivenne in mente l’istante in cui l’ospite mi aveva guardato. Non so perché. Rimasi piacevolmente sorpreso. Mi stavo eccitando. In un istante lo fui. Tolsi le mutande e cominciai a sfiorarmi il membro. Eretto completamente. Solleticavo il glande e poi lo scroto. Senza rendermene conto la mano proseguì sempre più veloce fino a farmi pervadere da un vortice di piacere. Mi fermai. Avevo perso la cognizione del tempo. Si era fatto ormai tardi.

Era il momento di tornare al lavoro, così cambiai anche le mutande, misi dei pantaloni puliti ed uscii dalla camera. Riattraversai il corridoio.

Altro catturò nuovamente la mia attenzione. La porta del bagno socchiusa. Risatine soffuse, gridolini, voci…

***

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